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Psicoterapia e Diagnosi

Uno dei quesiti che mi viene posto più frequentemente, essendo un medico e occupandomi di psicoterapia, è questo; in cosa consiste la psicoterapia?

Dare una risposta ad un pubblico non professionale è tutt’altro che semplice, basandosi sull’interazione tra il terapeuta ed il paziente, la psicoterapia è volta a ricostruire una validità funzionale perduta che caratterizza una determinata personalità o essenzialmente a ricostituire le risorse di un individuo, liberandole da un fitto tessuto là dove meccanismi ripetitivi hanno generato un cortocircuito, tale da non poter più far luce su se stessi. Avviando così un nuovo percorso sul proprio territorio, chi entra in psicoterapia è come se munito di una mappa può dare inizio alla conoscenza di se’, acquisendo una consapevolezza sulla quale è basata la nostra comprensione. “Colui che conosce gli altri è sapiente, colui che conosce se stesso è illuminato” (Lao Tzu 1996)

Fra tutte le definizioni fornite da i vari autori ho scelto la seguente;

la psicoterapia può considerarsi come una nuova relazione di attaccamento, sulla quale il paziente può investire modificando vecchi modelli appartenuti al passato, per avviare una ristrutturazione della memoria implicita legata all’attaccamento primitivo. L’interazione con il terapeuta, affettivamente partecipe, favorito da un contesto neutrale e non giudicante lascia ampio spazio all’individuo di sperimentarsi liberamente.

La relazione terapeutica è di fondamentale importanza sia in campo medico che psicoterapeutico, tale da poter essere considerata un loro comune denominatore.

Ma in medicina, oltre alla relazione terapeutica, l’accento viene posto sull’importanza della diagnosi assumendo un ruolo determinante nel delimitare la natura o l’origine di una malattia in seguito alla valutazione dei sintomi.

Secondo il modello medico la valutazione, che deriva dall’osservazione dei sintomi, serve ad inserirli in una prospettiva diacronica attraverso l’anamnesi, oltre a dare un senso unitario attraverso un’ipotesi di sindrome infine si stabilisce la sede, quindi l’organo colpito e la causa della malattia, giungendo così alla diagnosi eziologica.

A conclusione dell’indagine diagnostica, si potrà fare un programma terapeutico e una prognosi. In molti rami della medicina il valore della diagnosi non è mai stato posto in dubbio, specialmente nel caso di diagnosi psichiatrica, poiché la sua importanza è evidente di per sé, in quanto dalla diagnosi dipendono in gran parte il trattamento e la prognosi.

Il problema dell’indicazione alla terapia si collega inevitabilmente a quello della diagnosi. Nel caso della malattia mentale, nasce l’esigenza di fare una doppia diagnosi, specialmente quando i sintomi sono aspecifici.

Ad esempio, un paziente può presentare sia sintomi depressivi che sintomi psicotici. La doppia diagnosi può dimostrarsi sostanzialmente utile anche nel caso di disturbi di personalità, dove i sintomi possono essere utilizzati per esplorare lo stato affettivo e le caratteristiche di personalità.

Attualmente, la forma di diagnosi che influenza più di ogni altra il pensiero e la prassi psichiatrica è quella del sistema americano del “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, di cui ne esistono già diverse edizioni, l’ultima attualmente è la V.

La valutazione e la diagnosi assumono significati diversi a seconda della teoria dei terapeuti, comportando un’operazione di distinzione, secondo alcuni fra salute e malattia, secondo altri fra stato di benessere e sofferenza, secondo altri ancora, fra problema e soluzione.

Queste importanti differenze derivano dai modelli terapeutici utilizzati, che prescrivono di operare in primo luogo la distinzione fra normalità e patologia, per esempio quello psicodinamico o quello comportamentale, o fra stato di benessere e di sofferenza, per esempio per quelli che si ispirano al pensiero umanistico, alla narrativa e al costruzionismo, ed infine quelli che fanno una distinzione fra problema e soluzione, che appartengono al modello sistemico di Palo-Alto, basato sul principio di causalità circolare che connette il problema alla soluzione.

Secondo il modello sistemico relazionare o comunicare su una specifica diagnosi con eventuali colleghi, ed in particolar modo con il cliente, richiede molta sensibilità e capacità di trasmettere messaggi, attraverso canali non verbali di speranza e di fiducia per il futuro. In caso contrario si corre il rischio di evocare uno scenario futuro dominato dal concetto di patologia e di malattia, basato quindi su ciò che è negativo, deresponsabilizzando e togliendo competenza alla persona.

In particolare il gioco linguistico della diagnosi psichiatrica porta alla reificazione e semplificazione di una realtà complessa che con gli effetti pragmatici che ne derivano, specialmente nei casi gravi, può introdurre un concetto di atemporalità. Quindi coerentemente a quanto si è detto, il processo diagnostico può essere visto come un processo di attribuzione linguistica: infatti se la realtà emerge dal linguaggio attraverso il consenso, anche i concetti di patologia e sanità e le categorie diagnostiche sono frutto del consenso di una comunità di esperti.

La figura, del terapeuta impegnato a trattare sintomi psico-patologici, psico-somatici, imbrigliati in conflitti-nevrotici e deliri-sconfinati da depressioni croniche, utilizza un unico strumento: “la parola” o “il silenzio”.

In ultima analisi la mentalità medica influenza non solo il terapeuta, che deve fare i conti con un’innata predisposizione a prendersi cura del paziente e ancor più quando entra in gioco la presa in carico, ma influenza anche il paziente stesso che si rivolge al terapeuta già con l’idea che la terapia abbia in sé un significato di soluzione.

Ed è così che all’inizio della terapia comincia una sorta di “caccia alla risposta o alla causa” di ciò che ha generato il sintomo, spesso sarà il paziente stesso ad esigere dal terapeuta una spiegazione o una diagnosi, ed è qui che entra in gioco l’abilità del terapeuta spostando l’attenzione periferica del paziente verso la propria centralità.

A. Beck fin dai suoi primi libri sulla depressione disse: “le qualità ottimali che il terapeuta deve possedere comprendono calore umano, empatia e schiettezza”, queste caratteristiche modulano la collaborazione terapeutica in modo da favorire l’applicazione e quindi l’efficacia del trattamento.

L’empatia intesa come capacità del terapeuta di entrare nel mondo del paziente, cercando di provare le medesime sensazioni e sentimenti provati dal paziente, e la condivisione di questa esperienza, aumenteranno nel paziente la percezione di essere capito e faciliteranno la nascita di una fiducia nel rapporto terapeutico.

Articolo a cura della Dott. Giorgia Ettaro – Medico Chirurgo-Psicoterapeuta Specialista in Farmacologia Clinica.

Bibliografia:

1. G.O. Gabbard, (2002). Psichiatria psicodinamica, III ed. Raffaele Cortina Editore, Milano.

2. Kendell, R. E. (1977). Il ruolo della diagnosi in psichiatria. Tr.It. Il pensiero Scientifico, Roma.

3. Andolfi M. (1994), Il colloquio relazionale, Accademia di psicoterapia della Famiglia, Roma.

4. Anderson, H., & Goolishian, H. (1988). Human systems as linguistic systems: Preliminary and evolving ideas about the implications for clinical theory. Family Process, 27(4), 371–393.

5. Anderson, H., & Goolishian, H. (1992). The client is the expert: A not-knowing approach to therapy.

6. La Relazione Terapeutica nella Terapia Cognitivo-Comportamentale – EABCT 2012 Relazione terapeutica: le qualità ottimali che il terapeuta deve possedere comprendono calore umano, empatia e schiettezza. ID Articolo: 15364 – Pubblicato il: 13 settembre 2012.

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