Uno degli oncogeni più noto sia ai medici che al pubblico è la proteina p53. Questo oncogene è uno dei maggiori regolatori della maturazione cellulare e della risposta cellulare alle radiazioni ionizzanti. Esso è anche uno dei maggiori coordinatori della morte cellulare, quando il danno esterno è considerato ormai non riparabile. Ed è proprio questo il suo meccanismo cancerogenetico principale: quasi tutte le sue mutazioni gli fanno perdere la sua funzione soppressiva sul cancro. Pur essendo mutato in quasi il 60% delle neoplasie umane, esso è anche responsabile di una patologia ereditaria ben precisa, la sindrome di Li-Fraumeni, un disturbo autosomico dominante trasmissibile, caratterizzato da una mutazione del p53 sul braccio corto del cromosoma 17. I pazienti che ne sono affetti hanno un rischio medio 25 volte maggiore di sviluppare sarcomi dei tessuti molli, osteosarcomi, carcinoma mammario, tumori cerebrali ed anche linfomi. Almeno il 50% dei tumori umani vede nelle mutazioni di regioni specifiche del DNA la loro causa scatenante. Agenti esterni come radiazioni ionizzanti, agenti inquinanti, diserbanti, sostanze cancerogene, e persino certe categorie di farmaci, sono tutte cause riconosciute nella promozione tumorale. La chemioterapia anticancro attuale ha nel suo arsenale farmaci che danneggiano le cellule fin dentro il materiale genetico. L’intento di attivare una risposta dipendente dalla proteina p53 così estesa da condurre la cellula tumorale a morte.
Ma se le cellule attaccate esprimono un p53 mutato, i farmaci non saranno mai in grado di innescare la morte cellulare in modo efficace, poiché l’efficienza nel provocarla è compromessa almeno per l’80%. Per questa ragione, i ricercatori hanno cercato in vari modi di ripristinare le funzioni del p53 in seno alla massa tumorale da trattare. Una strategia che fu tentata nel 1999, fu passare al vaglio le banche dati di tutti i composti chimici conosciuti, per scoprire se qualcuno di essi fosse in grado di interagire con una delle forme mutate del p53. L’esito fu positivo, portando all’identificazione della pifitrina-alfa, una piccola molecola che però impediva in vitro le funzioni de p53 normale. La scoperta non è stata affatto un fallimento, poiché ha permesso a vari gruppi di ricerca di studiare molecole simili da applicare in campo neurologico. Inibitori di p53, infatti, sono risultati efficaci in vitro ed in vivo nell’impedire la morte cellulare in caso di ischemia cerebrale e malattie neurodegenerative, come il morbo di Parkinson. Un gruppo di ricercatori del National Institutes of Health (NIH) di Baltimora, ha sintetizzato derivati molto stabili della pifitrina, dimostrandone la loro azione protettiva sui neuroni esposti ad ischemia e stress ossidativo. Sfortunatamente, la pifitrina-alfa non è mai entrata in trials clinici controllati, rimanendo come mezzo di studio in laboratorio. Ma sulle sue orme è stata identificata RITA, una molecola che si lega direttamente alla forma non-mutata del p53 ed è efficace contro alcune forme di leucemia mieloide umana e del topo.
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Finalmente nel 2002 altri screening hanno identificato PRIMA-1, il primo composto a basso peso molecolare in grado di riattivare le funzioni di una forma mutata di p53. I primi studi nei topi in vivo hanno provato che il composto possiede una tossicità quasi nulla. Sembra risultare efficace in caso di tumore mammario, al fegato, cerebrale sulla leucemia mieloide. Dopo di questo è stato identificato MIRA-1, un altro composto a basso peso molecolare che interagendo con il p53 mutato, gli permette nuovamente di interagire col DNA e ripristinare il suo programma genetico. Non è anch’esso riuscito, tuttavia, ad entrare in trials clinici pilotati, pur rimanendo una preziosa molecola di studio in laboratorio per le funzioni di p53 nella biologia cellulare. Dati clinici preliminari, invece, esistono per la nutlina-3, un composto che interferisce con l’interazione di p53 con il suo naturale inibitore, la proteina Mdm2. La nutlina-3 sequestra Mdm2, lasciando così p53 libero di attivare un programma trascrizionale repressivo. Ha già mostrato efficacia nel mieloma multiplo, nella leucemia mieloide acuta e nel neuroblastoma, specie in associazione con farmaci specifici per queste forme neoplastiche. La nutlina-3, in combinazione con PRIMA-1, è entrata nella sperimentazione pre-clinica (fase I e II). Analisi postume della banca dati del National Cancer Institute (NCI), hanno permesso di scoprire ulteriori composti capaci di interagire con p53, sia con la forma naturale del p53 che con quella mutata.
All’interno di questi gruppi di molecole, poi, ne esistono alcune che possono interagire solamente con una mutazione ben precisa di p53. Es. NSC 319726 è selettivo solo per le mutazioni H175 ed H273, che vengono ritrovate in alcuni sottotipi di carcinoma mammario. Il farmaco, inoltre, è aiutato nel suo meccanismo dalla presenza di zinco, uno ione che è essenziale alla corretta struttura molecolare di p53 stesso. Non a caso, alcune mutazioni di p53 fanno perdere a questa proteina la capacità di legare lo zinco. Questo apre spiragli interessantissimi per la realizzazione di una medicina mirata. La somministrazione di questo elemento come integratore è molto ben tollerata, ed è stata praticata e/o raccomandata anche in caso di tumori. Essendo lo zinco un coordinatore principale del sistema immunitario, si pensò che la maggior parte delle sue azioni risiedesse nel potenziamento delle difese immunitarie anticancro. La scoperta che esso può influenzare le funzioni di una proteina così importante per il nostro organismo, ha gettato luce su nuove speranze terapeutiche. Esistono già alcuni studi pubblicati sul sinergismo d’azione fra supplementi orali di zinco e chemioterapici in tumori con p53 sia normale che mutato (si consulti la bibliografia allegata).
Questo significa che, accanto alla attuale tipizzazione molecolare del tumore del paziente, sarà possibile intervenire con un approccio farmacologico personalizzato.
- a cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, medico specialista in Biochimica Clinica
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