Sempre più conoscenze ci arrivano grazie ai progressi della ricerca scientifica. La visione della Medicina ufficiale nei confronti della malattia sta lentamente cambiando, arrendendosi alle evidenze di ordine basale che si delucidano con sempre maggiori dettagli. Ecco che la Medicina trova l’opportunità di trasformarsi in Biomedicina, una branca della scienza medica che applica principi delle scienze naturali (fisica, chimica, biologia) alla pratica clinica. Considerato che le frontiere del sapere si allargano sempre più, già trent’anni fa Georges Canguilhem ha proposto una definizione della medicina il cui scopo primario è prendersi cura dei problemi della salute del singolo malato o di una popolazione. Per conseguire con maggiore efficacia questo obiettivo però, essa deve accrescere la sua scientificità ricorrendo alle conoscenze e ai metodi della ricerca di base, la quale deve trovare la radice vera dei fenomeni patologici e clinici generali.
Più recentemente (2000), Hubertus Nederbragt dichiara: “Nella sfera della conoscenza di base, la logica prevalente nei rapporti tra le branche fondamentali della medicina è quella della interconnessione tra argomenti che si “sommano per produrre un edificio teorico coerente”. Al contrario, a livello clinico il confronto tra gli argomenti che concorrono alla conoscenza della malattia nel singolo paziente avviene per competizione. In parole povere, le conoscenze di base vengono antagonizzate dalle altre dimensioni che condizionano le scelte cliniche, come l’esperienza personale del paziente, i rapporti sociali, i fattori economici e i valori morali. Anche se guidati da logiche diverse, i due livelli di conoscenza hanno tra loro lo stesso rapporto che sussiste tra un organo e l’organismo, con la conoscenza biomedica come parte essenziale della conoscenza clinica, che poi ne definisce la funzione.
Negli ultimi 15 anni di pratica clinica, inoltre, si è standardizzato il concetto di evidence-based medicine (EBM), cioè l’approccio medico puramente basato sulle prove cliniche in campo. L’EBM, che nell’ultimo ventennio è stata proposta come un nuovo ‘paradigma’, fa riferimento alla filosofia degli approcci epidemiologici (Evidence-based Medicine Working Group, 1992). Essa assume come metodologia fondamentale per le scelte mediche le prove empiriche ricavate dai prove cliniche e dalle meta-analisi. Rispetto al vecchio’ paradigma del buon esercizio della pratica medica, l’esperienza personale e le conoscenze della fisiopatologia applicate ai problemi clinici, l’EBM ritiene necessaria anche la standardizzazione delle scelte sulla base di uno sforzo metodologico che renda riproducibili le osservazioni. In più, l’EBM non considera né necessarie né sufficienti le conoscenze fisiopatologiche da applicare o seguire nella pratica clinica.
Non si vuole qui entrare in merito a chi ha formulato questa visione, quali scopi ci fossero all’origine, nè contestare idee altrui. Ma se si ha intenzione di fare Biomiedicina, questa visione diventa molto riduttiva. La pratica clinica non è al corrente di tutte le reazioni chimiche ed enzimatiche che ogni istante avvengono nel nostro corpo e come esse sono modulate dall’ambiente circostante o dalle nostre abitudini di vita. Il corpo umano, per quanto dotato di limiti fisici, è tuttavia uno sconfinato laboratorio chimico che adatta le sue reazioni agli stimoli esterni (alimentazione, moto fisico, stile di vita, esposizione a farmaci, ecc.). Si intende sconfinato perchè molte reazioni enzimatiche possono essere adattate proprio dagli stimoli ambientali. La genetica ha ormai provato dagli anni Ottanta che il vecchio assioma un gene=una proteina non è vero. Un gene può essere programmato a generare varianti della stessa proteina, che possono avere funzioni leggermente diverse o addirittura diametralmente opposte. La pratica clinica non tiene affatto conto di questo e persegue la risoluzione del problema rimanendo intorno al sintomo, che in realtà è solo la punta dell’iceberg del problema organico in corso.
La Medicina ufficiale, con la quasi totalità delle sue metodiche ormai standardizzate, routinarie e, qualcuna di esse, obsolete, si accorge soltanto del danno biologico che diventa evidenza clinica ad uno stadio in cui intervenire non comporta spesso la guarigione. Vero è che la prevenzione è stata sempre predicata dalla classe medica al cittadino o al malato che si voglia, considerato che gli aberranti stili di vita sono i principali responsabili dello stato di salute globale. E’ stato fatto molto, specie a carico della prevenzione su due fra i principali problemi della Sanità Pubblica mondiale, ossia le malattie cardiovascolari ed i tumori. I risultati non sono affatto mancati, tanto è vero che le statistiche hanno ufficialmente dichiarato un traguardo ottenuto specialmente in campo oncologico, e secondariamente in quello cardiologico.
Se tuttavia si commenta che non è stato fatto abbastanza, da qualunque lato provenga la critica, è anche vero che da un lato esiste una certa riluttanza a cambiare metodologia di approccio. Dall’altro, a sua volta, si possono udire critiche rivolte alla professionalità, all’impegno diretto, alle modalità di approccio e/o alla inefficacia delle soluzioni presenti o al loro essere puramente palliative o sintomatiche. La vecchia affermazione dei testi di Medicina Interna “non è mai come sul manuale”, tuttavia ha ancora pienamente ragione. Il manuale di testo ha lo scopo di dare al medico formantesi le conoscenze base, la sintomatologia principale, il decorso probabilistico e gli interventi terapeutici per cui esistono prove scientifiche. Il resto è affidato all’esperienza sul campo: è lì che il medico osserverà le presentazioni anomale del caso clinico, le differenze fra paziente e paziente e come i trattamenti possono essere efficaci per uno ma non per l’altro.
Ecco che così si comincia sentire più spesso la dizione Medicina Personalizzata, con la quale si prende il singolo soggetto e lo si analizza in tutto il suo complesso (visione olistica). Tramite l’anamnesi personalizzata in dettaglio, l’analisi del suo complessivo stile di vita e della sua emotività di base ed acquisita, l’individuo può sperimentare una sua sensazione di essere finalmente “al centro dell’attenzione”. E’ chiaro che la Medicina Personalizzata non intende gonfiare il senso di vanità o di autostima individuale; il sentirsi a quel “centro” detto da molti pazienti deve essere inteso come “finalmente il medico ha capito di cosa soffro”. Non è un’esagerazione: vero è che gli stili di vita causa delle principali patologie attuali sono frutto di scelte volontarie, ma se il paziente vede nell’approccio curativo risultati che stentano a mantenersi o che anzi peggiorano il proprio stato di salute, la sua fiducia verso la parte competente diventa menomata o addirittura oppositiva.
Con la risultante spirale viziosa in cui il cittadino trascurerà volontariamente la propria salute, ignorando i comportamenti preventivi e abbandonandosi ad abitudini sbagliate che poi, da caso a caso, saranno responsabili della comparsa di patologie più o meno severe e/o invalidanti. Questo atteggiamento porterà ad aggravare l’onere sociale e sanitario che fronteggia adesso nuove emergenze diverse da quelle cardiovascolari o tumorali: l’obesità, il diabete, le malattie osteoarticolari e le malattie respiratorie. L’OMS ha stimato che questa tipologia di problema sarà quella dominante per almeno i prossimi 30-40, se non si troveranno delle soluzioni efficaci a smaltire gli eccessi e a snellire i costi sanitari delle malattie correnti.
La soluzione forse sta nel mezzo, come dice il vecchio proverbio: entrambe le parti devono fare il proprio dovere con disciplina.
- a cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, Medico specialista in Biochimica Clinica.