Il morbo di Alzheimer è il tipo di demenza più comune, rappresentando il 60-80% di tutti i casi. Le persone che hanno il morbo di Alzheimer tendono a sperimentare la perdita di memoria e altri problemi cognitivi che interferiscono con le loro vite quotidiane. Circa 5,7 milioni di persone negli Stati Uniti hanno il morbo di Alzheimer, ma si prevede che i numeri aumentino di circa 14 milioni entro il 2050. L’Alzheimer è anche la sesta causa di morte negli Stati Uniti. La dopamina è un neurotrasmettitore coinvolto nella regolazione delle risposte e dei movimenti emotivi. Il nuovo studio mostra che la perdita di cellule che usano la dopamina potrebbe compromettere la funzionalità nelle regioni del cervello che creano nuovi ricordi.
I risultati dello studio saranno a breve pubblicati sul Journal of Alzheimer’s Disease. I suoi autori ritengono che questa scoperta abbia il potenziale per trasformare il modo in cui viene diagnosticato il morbo di Alzheimer. I ricercatori hanno utilizzato un tipo di risonanza magnetica chiamata 3Tesla, che è il doppio della forza della risonanza magnetica standard, per eseguire la scansione del cervello di 51 adulti sani, 30 con lieve decadimento cognitivo e 29 con malattia di Alzheimer. Analizzando i risultati, hanno trovato un collegamento tra le dimensioni di due aree chiave del cervello – il tegmento ventrale e l’ippocampo – e la capacità dei partecipanti di apprendere nuove informazioni.
Annalena Venneri, autrice principale dello studio di Sheffield Institute for Translational Neuroscience presso l’Università di Sheffield nel Regno Unito, spiega i risultati. “I nostri risultati suggeriscono che se una piccola area di cellule cerebrali, chiamata area tegmentale ventrale, non produce la giusta quantità di dopamina per l’ippocampo, un piccolo organo situato nel lobo temporale del cervello, non funzionerà in modo efficiente. associato a formare nuovi ricordi, quindi questi risultati sono cruciali per la diagnosi precoce della malattia di Alzheimer. I risultati indicano un cambiamento che avviene molto presto, che potrebbe innescare la malattia di Alzheimer. Questo nostro è il primo studio a dimostrare un simile legame nell’uomo”.
- a cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.
Pubblicazioni scientifiche
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