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Patologie respiratorie da incendi: così la salute dei polmoni “va in fumo”

Se esposte in laboratorio a livelli di inquinamento paragonabili a quelli che si trovano nell’atmosfera della regione amazzonica durante la stagione delle foreste e delle colture, le cellule polmonari umane subiscono gravi danni al DNA e smettono di dividersi. Dopo 72 ore di esposizione, oltre il 30% delle cellule in coltura sono morte. Il principale colpevole sembra essere il retène, un composto chimico che appartiene alla classe degli idrocarburi policiclici aromatici (IPA). Questi sono alcuni dei principali risultati di uno studio pubblicato da un gruppo di ricercatori brasiliani nel settembre 2017, nella rivista Scientific Reports. Il primo passo dello studio è stato il determinare la concentrazione di inquinanti da utilizzare negli esperimenti di laboratorio progettati per imitare l’esposizione subita da persone che vivono nell’area di uso intensivo del suolo e copertura vegetale, nota come “arco di deforestazione” – 500.000 chilometri quadrati estendendosi verso ovest dal Pará orientale e meridionale fino a Mato Grosso, Rondônia e Acri.

Utilizzando modelli matematici, i ricercatori hanno calcolato la capacità del polmone umano di inalare il particolato al culmine della stagione degli incendi e la percentuale di sostanze inquinanti che si depositano nelle cellule polmonari. Gli inquinanti utilizzati in vitro sono stati raccolti in un’area naturale vicino a Porto Velho, Rondônia, durante la stagione degli incendi, che raggiunge i picchi in settembre e ottobre. I campioni sono stati raccolti utilizzando un dispositivo che attira l’aria e deposita particelle fini con un diametro inferiorea 10 micrometri in un filtro. I filtri sono stati congelati poco dopo che il particolato è stato raccolto perché i composti organici trovati nel pennacchio di inquinamento sono altamente volatili. Questo materiale è stato spedito a San Paolo e diluito in una soluzione nutritiva, che è stata poi applicata alle colture cellulari. Nei primissimi momenti di esposizione le cellule polmonari hanno iniziato a produrre grandi quantità di molecole infiammatorie. L’infiammazione è stata seguita da un aumento nel rilascio di radicali dell’ossigeno (ROS), mediatori che causano stress ossidativo.

Grandi quantità di ROS causano danni alle strutture cellulari. I ricercatori hanno così eseguito test specifici per confermare il danno genetico. Sulla base della loro osservazione della maggiore espressione della proteina LC3 e di altri marcatori specifici, hanno anche scoperto che le cellule entravano in un processo di autofagia in cui degradavano le loro strutture interne. Per comprendere i percorsi che stavano inducendo lo stress ossidativo, i ricercatori hanno analizzato il ciclo cellulare e scoperto che è stato alterato da un aumento nell’espressione di proteine come p53. Le cellule smisero di replicare, il che suggeriva che si stava verificando un danno al DNA. Tutto questo danno è stato osservato in sole 24 ore di esposizione. Col passare del tempo, il danno genetico aumentò e le cellule entrarono in un processo di apoptosi e necrosi (morte cellulare che induce infiammazione). Mentre solo il 2% delle cellule di controllo era morto per necrosi dopo 72 ore, nella coltura trattata con sostanze inquinanti, la mortalità cellulare raggiungeva il 33%.

Non tutte le cellule muoiono, ma le sopravvissute subiscono danni al DNA, che potrebbero predisporli allo sviluppo del cancro infuturo. Prima di iniziare l’esperimento con cellule in coltura, i ricercatori hanno completato un’analisi delle sostanze presenti nel particolato raccolto nella regione amazzonica. Hanno identificato la presenza di diversi IPA, molti dei quali sono noti per essere cancerogeni. Gli scienziati sanno che la morte di un gran numero di cellule polmonari in un organismo vivente, può portare persino a malattie gravi come l’enfisema polmonare. Essi hanno ripetuto gli esperimenti con le cellule usando unicamente la sostanza più abbondante nel particolato. Ed hanno così visto che il solo retène induce anche danni al DNA e morte cellulare. In un precedente studio, essi avevano dimostrato che il declino della deforestazione da 27.000 km2 nel 2004 a 4.000 km2 nel 2012 ha evitato la morte di almeno 1.700 persone da malattie associate all’inquinamento.

Curiosamente, la maggior parte di queste morti non si sarebbe verificata in Amazzonia ma nel Sud del Brasile per il trasporto a lunga distanza di inquinanti e anche a causa della maggiore densità di popolazione della regione. Sebbene il retène non sia emesso dalla combustione di combustibili fossili, la principale fonte di inquinamento nelle aree urbane del Brasile, i ricercatori sottolineano che questo composto può essere trovato nell’atmosfera a San Paolo e in altre città, probabilmente a causa dell’incendio di canna da zucchero e altri tipi di biomassa nelle fattorie vicine. I risultati di questa analisi sono stati pubblicati nel 2015 sulla rivista Atmospheric Environment. Nell’articolo, i ricercatori osservano che mentre la maggior parte delle ricerche sull’esposizione all’inquinamento atmosferico si concentra sul ruolo dei combustibili fossili nell’inquinamento atmosferico, circa 3 miliardi di persone in tutto il mondo sono esposte all’inquinamento atmosferico causato dalla combustione di biomassa.

Questo comprende l’uso di legna o carbone come combustibile nelle stufe da cucina o nel riscaldamento domestico, nonché dalla deforestazione e dalle pratiche agricole. Inoltre, gli autori aggiungono che circa 7 milioni di morti nel mondo o un decesso su otto sono accaduti nel 2012 per esposizione all’inquinamento atmosferico, secondo un rapporto pubblicato dall’OMS. E si giunge così alle cronache dei nostri giorni. Nel Novembre del 2018, l’incendio della California ha fatto contare la perdita finale di 60.000 ettari diboschi in tutto stato americano. La scorsa estate i roghi dell’Amazzonia hanno causato polemiche, critiche e dibattiti politici che non hanno portato a nulla. La denuncia alla conferenza internazionale della scienza non ha fatto registrare provvedimenti ufficiali. Lo scorso Dicembre, nel pieno dell’estate dell’emisfero australe, gli incendi hanno divorato un paio di milioni di ettari di boschi e foreste dell’Australia, facendo diventare il cielo “rosso” di quel fuoco che ha incenerito tutto quello che ha incontrato sul suo cammino.

Non c’è dubbio che l’atmosfera si sia arricchita di retène e la qualità dell’aria da respirare sia diventata pessima. È probabile che si sentirà parlare di problemi di salute nei decenni a venire nel continente australiano. Una catastrofe ambientale ed ecologica così vasta nel giro di sei mesi, non può non lasciare conseguenze sulla salute. L’opera dell’uomo e del suo sfruttamento ambientale ha già lasciato ferite indelebili nella natura e nell’atmosfera terrestre. Lo scarico dell’auto e i fumi dei vulcani faranno la loro parte, ma migliaia di chilometri quadrati di bosco che vanno in fumo ogni anno, non sono un’inezia.

Per il mondo, e per la nostra salute.

  • a cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.

Pubblicazioni scientifiche

Bilsback KR et al. Environ Sci Technol. 2019; 53(12):7114-25.

Navarro KM et al. Environ Sci Technol. 2017; 51(11):6461-69.

Herckes P et al. Environ Sci Technol. 2006; 40(15):4554-62.

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Dott. Gianfrancesco Cormaci
Dott. Gianfrancesco Cormaci
Laurea in Medicina e Chirurgia nel 1998; specialista in Biochimica Clinica dal 2002; dottorato in Neurobiologia nel 2006; Ex-ricercatore, ha trascorso 5 anni negli USA (2004-2008) alle dipendenze dell' NIH/NIDA e poi della Johns Hopkins University. Guardia medica presso la casa di Cura Sant'Agata a Catania. Medico penitenziario presso CC.SR. Cavadonna (SR) Si occupa di Medicina Preventiva personalizzata e intolleranze alimentari. Detentore di un brevetto per la fabbricazione di sfarinati gluten-free a partire da regolare farina di grano. Responsabile della sezione R&D della CoFood s.r.l. per la ricerca e sviluppo di nuovi prodotti alimentari, inclusi quelli a fini medici speciali.

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