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L’importanza della febbre nella protezione dal cancro: 50 anni di studi

Il fatto che la febbre sia stata mantenuta durante l’evoluzione dei vertebrati sostiene fortemente che le temperature febbrili conferiscono un vantaggio in termini di sopravvivenza. Un mistero di lunga data si riferisce ai meccanismi protettivi con cui la febbre scongiura gli attacchi degli agenti patogeni invasori. Un meccanismo coinvolge gli effetti diretti delle temperature febbrili sul potenziale infettivo dei patogeni. Ad esempio, le temperature nell’intervallo febbrile (40–41 °C) causano una maggiore riduzione di 200 volte del tasso di replicazione del poliovirus nelle cellule di mammifero e aumento della suscettibilità dei batteri Gram-negativi alla lisi indotta dal siero. Gran parte della nostra attuale comprensione dei meccanismi molecolari alla base della febbre deriva da studi in cui ai roditori è stato iniettato LPS, un componente delle pareti cellulari dei batteri Gram-negativi, per modellare la termoregolazione indotta dal sistema immunitario.

In questo modello, la prostaglandina E2 (PGE2) prodotta dalle cellule endoteliali vascolari cerebrali è considerata un importante mediatore pirogeno della febbre. Questa molecola effettrice lipidica integra segnali in ingresso da citochine pirogene prodotte in risposta a stimoli patogeni, con segnali in uscita che coinvolgono neurotrasmettitori che aumentano la temperatura corporea interna. La PGE2 viene anche sintetizzata nella periferia all’inizio di questa risposta, cioè prima del rilevamento delle citochine circolanti. È prodotta dalle cellule ematopoietiche in seguito all’attivazione del segnale LPS-TLR4 e poi attraversa la barriera emato-encefalica per iniziare la febbre. La febbre indotta da LPS si verifica attraverso meccanismi autonomici guidati dal legame di PGE2 ai recettori EP3 delle prostaglandine espressi dai neuroni termoregolatori dell’ipotalamo.

Vi sono prove crescenti che l’aumento da 1 a 4 ° C della temperatura corporea interna che si verifica durante la febbre sia associato a una migliore sopravvivenza e risoluzione di molte infezioni. Ad esempio, l’uso di farmaci antipiretici per ridurre la febbre è correlato a un aumento del 5% della mortalità nelle popolazioni umane infettate dal virus dell’influenza e influisce negativamente sugli esiti dei pazienti nell’unità di terapia intensiva. Studi preclinici su conigli infettati dal virus della peste bovina hanno anche riscontrato un aumento della mortalità quando la febbre è stata inibita con il farmaco antipiretico acido acetilsalicilico – il 70% degli animali trattati con acido acetilsalicilico è morto a causa di infezione rispetto al solo 16% degli animali con un normale risposta febbrile. Poi c’è la questione che la febbre infettiva renda i nostri corpi più resistenti al cancro aumentando e rafforzando un particolare gruppo di cellule nel sistema immunitario.

Per decenni, gli studi hanno suggerito che esiste un legame tra la storia della febbre infettiva e il minor rischio di cancro – ma ancora non esiste una prova diretta della causa. Tuttavia, in dei lavori pubblicati sulla rivista The Quarterly Review of Biology, gli scienziati dell’Università Nicolaus Copernicus in Polonia sostengono che esiste una forte argomentazione per la loro ipotesi. Non sono i primi a proporre che il sistema immunitario aumenti la resilienza al cancro, ogni volta che il corpo combatte una febbre infettiva. Finora sono state presentate diverse ipotesi e recenti dibattiti hanno messo inevidenza l’effetto della febbre sulle funzioni immunitarie innate e adattive. Il team, tuttavia, è il primo a individuare un gruppo di globuli bianchi noti come linfociti T gamma-delta. Gli autori suggeriscono anche che le cellule dovrebbero essere studiate per l’uso in immunoterapia, che è un approccio terapeutico che recluta e potenzia il sistema immunitario per combattere le malattie.

La ricerca e la pratica clinica dell’immunoterapia per il cancro si è concentrata su un altro gruppo di globuli bianchi chiamati linfociti T alfa-beta. Gli scienziati propongono che una migliore comprensione di come la febbre interagisca con le cellule T gamma-delta potrebbe rivelare “l’impatto maggiore e i benefici clinici di questa relazione”. Nel documento di studio, gli autori esaminano le ricerche e i dati pubblicati dagli esperimenti. Attingendo a questo, sostengono che la febbre infettiva gioca un ruolo chiave nell’aumentare le cellule T gamma-delta e nel migliorare la loro competenza antitumorale nel corso della vita di una persona. Dicono che ripetute risposte febbrili a infezioni acute aumentano la capacità delle cellule T gamma-delta di individuare le cellule anormali e favorire ambienti che le distruggono. Una febbre infettiva è una reazione difensiva e adattativa da parte del sistema immunitario, che si innesca quando il sistema immunitario incontra un particolare modello molecolare, come quello di un virus o di un batterio.

Il riconoscimento del modello molecolare coinvolge il “sistema febbrile” del corpo, che comprende diversi meccanismi. Questi includono, ad esempio, meccanismi di termoregolazione che aumentano la temperatura interna e il rilascio di citochine, che reindirizzano energia e risorse al sistema immunitario. Vi è anche un marcato aumento di “una vasta gamma” di cellule immunitarie difensive chiamate effettori. Questi includono le cellule T gamma-delta, “che possiedono una potente competenza anti-infettiva e antitumorale simile ai “natural killers” (NK), osservano gli autori. Le proteine recettoriali (recettore di superficie TCR) delle cellule T gamma-delta sono costituite da eterodimeri di catena gamma-delta. Sono stati descritti come un importante sottogruppo di cellule T” non convenzionali. Le cellule hanno caratteristiche uniche – inclusa una memoria evolutiva più antica – che consentono loro di effettuare la sorveglianza e attaccare le cellule tumorali.

Un particolare gruppo di cellule T gamma-delta conosciute come cellule T Vg9Vd2 può riconoscere e distruggere cellule di molti diversi tipi di tumore, inclusi, ad esempio, quelli di mieloma, sarcoma, carcinoma, linfoma e cancro alla prostata. La febbre infettiva aumenterà considerevolmente il numero di cellule T Vg9Vd2 circolanti nel sangue, fino a rappresentare il 60% delle cellule dei globuli bianchi. Quindi, se le loro ipotesi troveranno conferma ufficiale, ci saranno rivoluzionamenti nella clinica di molti campi, anche in quella pratica quotidiana. I meccanismi sottostanti a sostegno di questa ipotesi non sono diversi da un tentativo fatto negli anni ’80 di combattere i tumori attraverso i linfociti NK (Natural Killer). Il principio del metodo era quello di estrarre i linfociti dall’ammalato di tumore, coltivarli, espanderli e stimolarli con la citochina chiamata interleuchina 1 (IL-1). Guarda caso, laIL-1 è la stessa citochina che il corpo libera quando deve innescare la comparsa di febbre, mediata poi dalla PGE2 come detto sopra.

Il quadro descritto si è allargato da circa due anni attraverso la coperta che nella risposta febbrile è coinvolta una proteina chiamata IGFBP-6. Questa fa parte di una famiglia di proteine che, fra le altre cose, sequestrano i fattori di crescita insulino-simili (IGF-1 e -2). A loro volta, questi fattori sono coinvolti nella crescita corporea (muscoli ed ossa), nel metabolismo del fegato, delle cellule immunitarie ed anche delle cellule tumorali. Essi rientrano nel gruppo dei fattori di crescita che stimolano le cellule cancerose a dividersi e spargersi nell’organismo come metastasi. La IGFBP-6 indotta dalla febbre sequestra soprattutto il fattore IGF2, ma è riportato anche come questa proteina interferisca con la crescita delle cellule tumorali senza invocare questo meccanismo. Adesso si comprende che la febbre indotta per un motivo infettivo (se noto) o non infettivo (da indagare), ha la sua importanza a livello clinico.

Prendere un antipiretico (es. paracetamolo, ibuprofene) anche per semplici picchi febbrili che sembrano non rilevanti, potrebbe rivelarsi controproducente proprio per questo motivo. Ancora più nei bambini, nei quali il sistema immunitario deve essere addestrato a rispondere alle minacce esterne principalmente con le proprie forze. Abituare l’organismo a “spegnere” ogni febbriciattola con l’antifebbrile non è una pratica clinica corretta. Diventa corretto quando si dimostra che esiste un’infezione batterica grave in corso che necessita di antibiotici ancora prima che di antipiretici. Tramite la stimolazione immunitaria con le citochine febbrili (principalmente IL-1), l’obiettivo è quello di rendere competenti i globuli bianchi a far fronte ad ogni tipo di minaccia infettiva o non del quotidiano. Anche perché è noto che la febbre non è una malattia, ma un sintomo. Eliminare un sintomo spia come la febbre, che spesso può nascondere qualcosa di più grave sotto, non è saggio.

Se dovesse nascondere realmente qualcosa di più grave, si potrebbe arrivare ad un punto in cui non ci possa essere un riparo. E non sarebbe la prima volta nella storia della clinica.

  • a cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.

Pubblicazioni scientifiche

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Dott. Gianfrancesco Cormaci
Dott. Gianfrancesco Cormaci
Laurea in Medicina e Chirurgia nel 1998; specialista in Biochimica Clinica dal 2002; dottorato in Neurobiologia nel 2006; Ex-ricercatore, ha trascorso 5 anni negli USA (2004-2008) alle dipendenze dell' NIH/NIDA e poi della Johns Hopkins University. Guardia medica presso la casa di Cura Sant'Agata a Catania. Medico penitenziario presso CC.SR. Cavadonna (SR) Si occupa di Medicina Preventiva personalizzata e intolleranze alimentari. Detentore di un brevetto per la fabbricazione di sfarinati gluten-free a partire da regolare farina di grano. Responsabile della sezione R&D della CoFood s.r.l. per la ricerca e sviluppo di nuovi prodotti alimentari, inclusi quelli a fini medici speciali.

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