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Depressione come causa di osteoporosi: un’ipotesi biomedica vera?

L’osteoporosi è un grave problema di salute pubblica. L’essenza della malattia è la riduzione della forza ossea, che predispone a un aumento del rischio di fratture. Ogni anno nel mondo si registrano fino a 9 milioni di fratture secondarie. Secondo i dati dell’International Osteoporosis Foundation, oltre 200 milioni di donne nel mondo soffrono di osteoporosi, la maggior parte ha un’età superiore ai 60 anni. Nel 2018, le nuove fratture da fragilità in Europa sono state stimate a 3 milioni con un costo annuo associato di 39 miliardi di euro. Le fratture osteoporotiche sono una delle principali cause di morbilità e mortalità nella popolazione, specie negli ultrasettantenni. In Europa, l’osteoporosi ha causato più disabilità e anni di vita persi rispetto all’artrite reumatoide, anche se meno dell’osteoartrite. È stato identificato un gran numero di fattori di rischio per le fratture: età, sesso, essere in menopausa, indice di massa corporea e fumo. Anche la carenza di vitamina D o di magnesio sembrano partecipare, il che collega l’osteoporosi con la depressione.

L’identificazione dei fattori di rischio è importante per la diagnosi precoce e il trattamento, che si traduce in un significativo beneficio per la salute pubblica. Recentemente, la depressione e il suo trattamento sono stati sospettati come fattori di rischio per lo sviluppo dell’osteoporosi. Il problema èun importante problema di salute pubblica poiché la depressione colpisce 98,7 milioni di persone in tutto il mondo, essendo una delle principali cause di disabilità in tutto il mondo. La depressione è stata associata a una bassa densità minerale ossea. Inoltre, è stato dimostrato l’aumento del rischio di frattura nei pazienti con depressione. Ci sono molte ipotesi che associano la depressione all’osteoporosi. Il primo meccanismo è simile all’osteoporosi indotta da steroidi e interessa l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene; in soggetti affetti da depressione sono stati dimostrati livelli elevati di ACTH e cortisolo. Inoltre, negli individui depressi, è stata osservata ipersensibilità del tessuto glucocorticoide dovuta ad una maggiore prevalenza di polimorfismo del gene Bcl1.

Il secondo meccanismo è correlato alla sovrapproduzione di citochine infiammatorie nei pazienti con depressione (ipotesi neuro-infiammatoria). Negli ultimi dati pubblicati da uno studio dall’Università polacca di Lodz, comparando 100 soggetti depressi in trattamento farmacologico con 45 controlli non-depressi, è stato evidenziato che i primi avevano un aumento dei markers di ricambio osseo decisamente alterati. Fra questi l’osteocalcina, una proteina ossea i cui livelli plasmatici erano più bassi, mentre c’era un trend in salita per i frammenti di pro-collagene (CTX). Un altro marker sensibile e dosabile con le analisi del sangue è l’osteonectina. Stranamente, non sono state notate differenze di variazione della vitamina D plasmatica fra persone depresse trattate con farmaci rispetto ai controlli sani. Quando donne e uomini sono stati analizzati separatamente, gli esperti hanno osservato una concentrazione di CTX più alta nelle donne con depressione rispetto alle donne sane. Questa correlazione non esisteva fra gli uomini. Perciò gli studiosi pensano che il sesso possa essere un fattore contribuente.

Questa differenza di manifesterebbe grazie agli ormoni femminili estrogeni. Invero, il sistema nervoso delle donne utilizza molto gli estrogeni anche per ruoli non strettamente legati al comportamento. Gli estrogeni sono neuroprotettivi e fra tutti i neurotrasmettitori sono quelli che dialogano in preferenza con la dopamina, la sostanza che classicamente viene a mancare nelle sindromi depressive. La dopamina possiede recettori praticamente in tutte le cellule corporee, incluse quelle ossee che comprendono sia cellule costruttive (osteoblasti) che distruttive (osteoclasti). Nelle prime la dopamina ha un ruolo stimolante, e nelle seconde ha il compito di frenarle. Mancando la dopamina negli stati depressivi, questa non solo non mantiene il tono della stabilità ossea tramite gli osteoblasti, ma viene perso il freno che tiene a bada l’attività degli osteoclasti. Di conseguenza, inizia a prevalere il catabolismo osseo sopra lo stato di mantenimento. Questo può parzialmente spiegare perché le integrazioni esterne con calcio, bifosfonati ed estrogeni per trattare l’osteoporosi spesso sono inefficaci o non riescono a invertire il processo di mineralizzazione ossea.

Mancando il substrato neurochimico di controllo, ovvero la dopamina, diventa più utile trattare il problema depressivo per sé con farmaci appropriati e/o con un’integrazione alimentare che non comprenda unicamente il calcio. Questo minerale rappresenta circa il 40% della massa ossea e le carenze di altri micronutrienti sono decisamente più comuni della carenza di calcio. L’idrossi-apatite che forma l’impalcatura ossea è appunto un minerale che contiene fosforo ed occasionalmente degli atomi di fluoro, di boro e di silicato. Quindi, ci si può ritrovare a trattare un’osteoporosi dove una reale carenza di calcio non esiste, mentre possono venire a mancare altri principi nutritivi. Senza contare che le mega-assunzioni farmacologiche di calcio possono interferire con altri costituenti ossei, come il magnesio o il fosforo o il ferro. Lo stesso dicasi per la depressione, dove è stato dimostrato che la carenza di specifici minerali (magnesio, rame, fosforo), aminoacidi o altri nutrienti può promuovere la comparsa di una sindrome depressiva.

Un discorso a parte merita quello del ruolo della serotonina nel binomio depressione-osteoporosi. La maggior parte degli studi sperimentali e clinici attuali sembra indicare che l’uso di antidepressivi della classe SSRI (inibitori selettivi della captazione di serotonina) si associ ad un maggiore rischio di contrarre fratture spontanee o dovute ad un cronico uso di questo gruppo di farmaci. C’è da dire però che la chimica stessa della serotonina potrebbe essere il fattore confondente. Mentre, infatti, la dopamina possiede 5 recettori dei quali la distribuzione ossea è conosciuta, la serotonina possiede ben9 tipi di recettori per alcuni dei quali ve ne sono fino a 3-4 sottotipi. E’ chiaro, dunque, che l’utilizzo degli antidepressivi SSRI non è il modello più adatto per prendere il paragone, nè per testare se la carenza di serotonina possa portare alla comparsa di osteoporosi all’interno di una sindrome depressiva. Solo l’uso di agonisti selettivi di certi recettori della serotonina, sapendo quali di essi sono coinvolti nell’omeostasi ossea, potrebbe dire con certezza quale ruolo ha la serotonina nel riassorbimento osseo, più o meno in salute o nel contesto depressivo.

Infine, le ultime tendenze sulla patogenesi delle sindromi depressive vedono nella disregolazione del microbiota intestinale una sua possibile origine o quantomeno concausa. E’ noto che il microbiota produce sostanze vitaminiche, nutrienti della mucosa intestinale e regolatrici non solo del metabolismo intermedio, ma anche del sistema immunitario e della chimica cerebrale. Uno sbilanciamento della flora batterica intestinale è un fatto biologico assodato in chi è affetto da sindromi depressive, come provato da studi randomizzati su esseri umani. Tra l’altro il microbiota umano, come detto prima, può regolare la produzione di neurotrasmettitori locali: fra questi ci sono il GABA ed anche la serotonina. Anche alcuni acidi grassi a catena corta come il propionato, possono influenzare la reti neurali di certi agenti neurochimici. E sempre più prove scientifiche avvalorano l’ipotesi originale che solo una dieta variata e povera di eccessi, può mantenere il microbiota in costante buona salute. Dunque, la comparsa di osteoporosi potrebbe essere l’ultimo gradino di una scala che è cominciata con la perdita di un adeguato stile di vita o il sommarsi di abitudini e scelte consapevoli o inconsapevoli durate un’intera vita.

  • A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.

Pubblicazioni scientifiche

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Dott. Gianfrancesco Cormaci
Dott. Gianfrancesco Cormaci
Laurea in Medicina e Chirurgia nel 1998; specialista in Biochimica Clinica dal 2002; dottorato in Neurobiologia nel 2006; Ex-ricercatore, ha trascorso 5 anni negli USA (2004-2008) alle dipendenze dell' NIH/NIDA e poi della Johns Hopkins University. Guardia medica presso la casa di Cura Sant'Agata a Catania. Medico penitenziario presso CC.SR. Cavadonna (SR) Si occupa di Medicina Preventiva personalizzata e intolleranze alimentari. Detentore di un brevetto per la fabbricazione di sfarinati gluten-free a partire da regolare farina di grano. Responsabile della sezione R&D della CoFood s.r.l. per la ricerca e sviluppo di nuovi prodotti alimentari, inclusi quelli a fini medici speciali.

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