La sclerosi multipla è notoriamente una malattia infiammatoria oltre che autoimmune. Il processo di neuro-infiammazione è guidato dal sistema immunitario e dalle citochine che esso produce. Ma non è nuova l’ipotesi che oltre alle citochine anche i regolari neurotrasmettitori possano essere implicati nella patogenesi o nell’evoluzione di questa malattia. È stato già riportato nel 2005 che topi di laboratorio geneticamente resi privi del captatore della serotonina (trasportatore 5HTT), hanno un decorso migliore rispetto ai topi malati ma geneticamente intatti. La cosa interessante è che questo effetto è stato visto essere dipendente dal sesso degli animali, essendo pronunciato per i topi femmina. Un gruppo indipendente nel 2009 ha dimostrato quindi che inibendo la captazione cellulare della serotonina, ovvero bloccando il suo trasportatore con l’antidepressivo venlafaxina, ha lo stesso effetto dell’ablazione genetica. Il farmaco causa minore infiltrati nervosi di cellule immunitarie e ridotta sintesi delle citochine infiammatorie IL-12, IL-22 e TNF-alfa.
La venlafaxina era anche in grado di stimolare la sintesi di BDNF, un fattore di crescita cerebrale che può concorrere alla ricostruzione della sostanza nervosa danneggiata. Questo indica che essa può avere potere immunomodulante. Gli stessi effetti sono stati visti anche con altri comuni antidepressivi, la sertralina e la fluoxetina. Ricercatori dell’Università Federale dello Stato di Rio de Janeiro, in Brasile, nel 2018 hanno scoperto che la serotonina ha attenuato in vitro proliferazione dei linfociti T e produzione di citochine tipo Th1 e Th17, in colture cellulari da pazienti con SM. Inoltre, ha ridotto il rilascio di IFN-γ e IL-17 da parte dei linfociti T helper (CD8+), ma ha aumentato la produzione di IL-10 in questi stessi linfociti prelevati dai pazienti con la malattia. Un’analisi più accurata ha rivelato che la serotonina favorisce l’espansione dei linfociti regolatori Tregs. In particolare, questo neurotrasmettitore ha anche aumentato la frequenza delle cellule Treg17, un nuovo sottoinsieme di cellule T regolatorie scoperto da pochi anni.
L’effetto della serotonina era inversamente correlato al numero di lesioni cerebrali attive, indicando che la serotonina può effettivamente svolgere un ruolo protettivo contro l’insorgenza della sclerosi multipla. Questo, inoltre, rafforza i dati ottenuti dall’uso di antidepressivi della categoria captatori della serotonina (SSRI), che hanno recentemente mostrato azione benefica in modelli sperimentali e pre-clinici. Non a caso, oggi la pratica clinica è incline a somministrare questi farmaci ai pazienti con SM, additando effetti positivi sul dolore, la fatica e la correzione dell’umore. Non è da escludere che sotto gli effetti antidepressivi possano in realtà nascondersi effetti immuno-mediati che migliorino il decorso della malattia. Un caso singolare è stato quello del risperidone, un farmaco definito anti-psicotico che ha come bersaglio il recettore D2 della dopamina e quello 5HT2a della serotonina. Esso quindi bloccherebbe gli effetti della serotonina mediati da questo recettore.
Ma allora perché dovrebbe anch’esso migliorare il decorso della malattia nei modelli sperimentali? Come detto prima, esso è un antagonista di un tipo di recettore per un altro trasmettitore, la dopamina. Anche questa sostanza pare avere dei ruoli immunitari in svariati contesti, inclusa la sclerosi multipla (vedere articoli consigliati). Il bloccare il tipo di recettore 2a della serotonina, poi, non vuol dire annullare del tutto i suoi effetti biologici: essa possiede ber 9 sottotipi di recettore, ognuno con una sua distribuzione specifica sia periferica che cerebrale. Quindi anche la neurochimica e la immuno-chimica sottostanti a questi farmaci non è sovrapponibile. Per esempio, mentre venlafaxina e sertralina sopprimono la sintesi di interferone gamma, il risperidone non sembra condizionare affatto i suoi livelli. Sembra anche esserci preferenza di selettività dello stesso tipo di cellule immunitarie a secondo della loro ubicazione. Il risperidone non sembra condizionare l’attivazione dei macrofagi nella milza degli animali, mentre condiziona quelli cerebrali (microglìa) nella fase attiva della malattia.
Lo stesso gruppo di ricerca brasiliano ha poi provato l’anno scorso che nella compresenza di depressione maggiore in pazienti con SM, gli antidepressivi SSRI menzionati prima possono ridurre l’espressione di due importanti recettori immunitari, i recettori della tolleranza TLR2 e TLR4, sia a livello delle cellule immunitarie che nervose. Essi infatti sono espressi maggiormente a livello cerebrale nella depressione maggiore e gli scienziati pensano che si comportano come delle “guide” per gli eventi di neuro-infiammazione sottostanti alla malattia stessa. Una delle principali teorie sulla depressione suggerisce che questa patologia sia associata a una riduzione della produzione di ammine cerebrali, in particolare serotonina e dopamina. Oltre al suo ruolo nella regolazione dell’umore, della cognitività e dell’appetito, questo neuro-ormone svolge diversi ruoli immunomodulatori che negli anni vanno confermandosi sempre più. Come vanno rafforzandosi le prove che la depressione non è solamente un problema neurochimico. Piuttosto, un complesso dialogo cellulare che mette fra i primi posti il sistema immunitario.
I disturbi dell’umore nei pazienti con SM sono stati ampiamente associati a un rischio elevato di ricaduta clinica. È interessante notare che il trattamento per la depressione con farmaci SSRI si associa ad una riduzione dell’attività della malattia. Nella SM sperimentale (EAE), una minore gravità della malattia dopo il trattamento con SSRI era associata a una ridotta attivazione dei linfociti T. Pertanto, è possibile che questo beneficio sia legato alla capacità degli SSRI di ridurre le citochine pro-infiammatorie, come IL-17, e aumentare la produzione di quelle antinfiammatorie (es. IL-10) da parte dei linfociti T. Alcuni studi non hanno trovato alcuna correlazione tra gravità della malattia e depressione. Tuttavia, la depressione nella SM è associata a grave affaticamento e questo “sintomo fantasma”, poiché non viene rilevato negli esami neurologici, diminuisce i livelli di energia fisica e/omentale e può manifestarsi a riposo, durante l’attività fisica o in associazione a attacchi. Cosa molto importante, compromette le attività quotidiane, la qualità della vita e può incidere anche sulla qualità del riposo notturno.
Qualora questo si verificasse, il cattivo riposo innescherebbe il meccanismo del “cane che si morde la coda” a più livelli, col risultato finale di un aggravamento delle condizioni fisiche e mentali. Con l’aggravante che lo stress psicologico derivato da questa situazione fa da innesco per la comparsa di riacutizzazioni o ricadute della malattia.
- A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.
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