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Antidolorifici per trattare il dolore: è davvero il modo giusto? Le vecchie tesi sfidate dalle nuove scoperte

Tutti noi abbiamo sperimentato dolore da slogatura, torcicollo, cervicalgia, mal di testa da raffreddore ed altro ancora. Solitamente duo o tre giorni di antinfiammatorio in bustine o pillole ed il problema si risolve. Ma ci sono casi clinici dove la richiesta di analgesici si prolunga, come nelle fratture, malattie come l’artrite reumatoide o in certe tipologie di intervento chirurgico. In questi casi si ricorre anche agli steroidi e persino agli oppiacei come la morfina o suoi derivati. Per molti decenni è stata pratica medica standard trattare il dolore con farmaci antinfiammatori; ma a quanto pare questa tesi è messa in discussione da una scoperta scientifica della McGill University in collaborazione con colleghi italiani. A quanto pare questa soluzione a breve termine potrebbe portare poi a problemi a lungo termine. Ovvero, l’uso di farmaci antinfiammatori e steroidi per alleviare il dolore, potrebbe aumentare le possibilità di sviluppare dolore cronico. La ricerca mette in discussione le pratiche convenzionali utilizzate per alleviare il dolore.

Il normale recupero da una lesione dolorosa comporta l’infiammazione e il blocco che l’infiammazione con i farmaci potrebbe portare a un dolore più difficile da trattare. Nella ricerca, pubblicata nel 2022 sulla rivista Science Translational Medicine, i ricercatori hanno esaminato i meccanismi del dolore sia negli esseri umani che nei topi. Hanno scoperto che i neutrofili, un tipo di globuli bianchi che aiutano il corpo a combattere le infezioni, svolgono un ruolochiave nella risoluzione del dolore. Analizzando i geni delle persone che soffrono di mal di schiena, hanno osservato cambiamenti attivi nei geni nel tempo in persone il cui dolore è scomparso. I cambiamenti nelle cellule del sangue e nella loro attività sembravano essere il fattore più importante, specialmente a carico dei granulociti neutrofili. I neutrofili sono i globuli bianchi più abbondanti, che dominano le prime fasi dell’infiammazione e preparano le basi per la riparazione del danno tissutale.

L’infiammazione si verifica per un motivo ben preciso, come spiegano i classici testi di Patologia generale: essa serve a preparare le basi per la ricostruzione di ciò che è stato danneggiato. E non è un processo immediato: la risoluzione può richiedere anche qualche settimana nel peggiore dei casi. Questo anche a dispetto che, spesso, l’infiammazione stessa quando si prolunga può creare un danno biologico significativo. Lo sanno bene coloroche soffrono di malattie infiammatorie croniche come certe autoimmunità. Ma, stando ai dati della ricerca, può essere pericoloso interferire con la stessa infiammazione. Il blocco sperimentale dei neutrofili nei topi ha prolungato il dolore fino a dieci volte la durata normale. Anche il trattamento del dolore con normali farmaci antinfiammatori come diclofenac o ibuprofene; e steroidi come desametasone e prednisone ha prodotto lo stesso risultato, sebbene fossero efficaci contro il dolore all’inizio.

Questi risultati sono supportati anche da un’analisi informatica separata eseguita dai ricercatori su 500.000 persone, che ha mostrato che coloro che assumevano antinfiammatori per trattare il dolore avevano maggiori probabilità di soffrire di dolore da 2 a 10 anni dopo, un effetto non riscontrato nelle persone che assumevano paracetamolo o antidepressivi. Questi ultimi sono attivi anche in certe tipologie di dolore cronico non correlato alla depressione vera e propria, poiché lavorano sulla serotonina. Questo neurotrasmettitore, infatti, è responsabile di parte degli eventi infiammatori ma ha un comportamento da Giano “bifronte”: nelle fasi più tardive può agire anche da antidolorifico. Infatti, gli antidepressivi SSRI innalzano proprio i livelli di serotonina fuori dalle cellule e potrebbero spiegare parte dei loro effetti analgesici. Questi dati suggeriscono che potrebbe essere il momento di riconsiderare il modo viene trattato il dolore acuto, specie in contesti clinici di ricovero ospedaliero.

Molto spesso, i pazienti con fratture che eseguono riabilitazione in case di cura o in ambulatorio con fisioterapia guidata, richiedono sempre il loro “buon FANS” la sera perché così gli toglie il dolore e li lascia dormire. Esperienza decennale attiva che viene riportata anche di questa redazione scientifica. Il fatto che la richiesta diventi abitudinaria e quotidiana potrebbe avere un’interpretazione diversa da quanto ritenuto prima. Ovvero, il paziente richiede l’antidolorifico non solo perché gli esercizi di riabilitazione provocano dolore dopo la terapia giornaliera, ma perché interferendo con la risposta dei neutrofili descritta in questa ricerca risolvono l’infiammazione solo temporaneamente, non permettendole di completarsi secondo natura. Con il rischio che il paziente diventi anche “psicologicamente” dipendente dal farmaco, come succede per i sonniferi, anche quando torna a casa.

  • A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.

Pubblicazioni scientifiche

Parisien M et al. Sci Translat Med 2022 May 11; 14(644):eabj9954.

Freidin MB, Tsepilov YA et al. Pain. 2021 Apr 1; 162(4):1176-1187.

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Dott. Gianfrancesco Cormaci
Dott. Gianfrancesco Cormaci
Laurea in Medicina e Chirurgia nel 1998; specialista in Biochimica Clinica dal 2002; dottorato in Neurobiologia nel 2006; Ex-ricercatore, ha trascorso 5 anni negli USA (2004-2008) alle dipendenze dell' NIH/NIDA e poi della Johns Hopkins University. Guardia medica presso la casa di Cura Sant'Agata a Catania. Medico penitenziario presso CC.SR. Cavadonna (SR) Si occupa di Medicina Preventiva personalizzata e intolleranze alimentari. Detentore di un brevetto per la fabbricazione di sfarinati gluten-free a partire da regolare farina di grano. Responsabile della sezione R&D della CoFood s.r.l. per la ricerca e sviluppo di nuovi prodotti alimentari, inclusi quelli a fini medici speciali.

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