Lo stress e le comorbidità ad esso associate, tra cui ansia e depressione, rappresentano una preoccupazione crescente nel mondo di oggi. La ricerca ha identificato che quasi il 40% degli esseri umani soffre degli effetti di uno stress prolungato, di cui rispettivamente il 31% e il 33% sfociano in ansia o depressione. Lo stress sociale derivato da ragioni lavorative, sanitarie, personali, dai media e altro ancora ha un peso crescente sulla salute pubblica. La passata pandemia di COVID-19 ha gravemente esacerbato questa tendenza già preoccupante, con l’OMS che stima un aumento del 25% dei livelli di stress di base a livello globale come conseguenza della pandemia. Lo stress viene solitamente misurato clinicamente negli esseri umani valutando il livello dell’ormone cortisolo nel plasma sanguigno circolante di una persona.
La ricerca medica ha stabilito che un aumento o una diminuzione dei livelli di cortisolo di un individuo può costituire un indicatore affidabile dello stress a breve termine. Convenzionalmente, tranquillanti, e antidepressivi del tipo SSRI sono le opzioni di trattamento più comuni, aggiungendo i beta-bloccanti qualora lo stress si riversi sottoforma di ipertensione. Un numero crescente di studi evidenzia inoltre che queste sostanze chimiche, pur essendo efficaci nel trattamento dello stress e dei disturbi mentali, presentano un alto rischio di effetti collaterali e dipendenza dal loro uso prolungato. Insieme alla crescente divulgazione globale dei farmaci naturali a base di erbe autosomministrati “sicuri”, ciò presenta un’urgente necessità di scoprire nuove terapie di derivazione naturale che possano essere raccomandate al pubblico dopo i loro rigorosi test clinici.
La Withania somnifera o Ginseng indiano è una pianta medicinale della famiglia delle Solanacee, chiamata “Ashwagandha” fra le popolazioni autoctone, E’ originaria dell’India, del Medio Oriente e di alcune parti dell’Africa e cresce spontaneamente sia in Sicilia e Sardegna nell’area mediterranea. E considerata una pianta medicinale nella medicina tradizionale, con testimonianze del suo utilizzo in India risalenti a 2500 anni fa. Gli estratti della pianta sono stati usati per trattare una serie di malattie non correlate, tra cui artrite, insonnia, tubercolosi, asma, infertilità maschile e ansia. La ricerca scientifica ha verificato diverse applicazioni tradizionali degli estratti di ginseng indiano, tra cui l’infertilità maschile e il miglioramento della regolazione della tiroide. Tuttavia, sebbene esistano prove degli effetti positivi dell’impatto del ginseng indiano sullo stress e sui livelli di cortisolo, i meccanismi che governano questa interazione rimangono sconosciuti.
Confermando lavori precedenti, il consumo di estratti di ginseng indiano per un periodo compreso tra 30 e 110 giorni ha portato a riduzioni misurabili e significative dei livelli di cortisolo nei partecipanti allo studio. Tuttavia, gli effetti a lungo termine degli estratti, o il potenziale effetto domino della riduzione della secrezione di cortisolo, rimangono sconosciuti. Nessuno degli studi inclusi ha indagato i meccanismi alla base della capacità di soppressione dei corticosteroidi degli estratti di ginseng indiano. E’ verosimile che gli effetti dipendano dal fatto che la piante è estremamente ricca in saponine, glucosidi di tipo steroideo che hanno numerose azioni biologiche. Una recente revisione ha riassunto circa 140 composti specializzati riportati nel ginseng indiano. Tra questi, i più noti sono un gruppo complesso di lattoni steroidei noti come withanolidi, che si presentano anche come glicosidi (withanosidi).
Sono stati segnalati oltre 70 singoli derivati witanolidici nella pianta, con livelli più elevati nelle foglie che nelle radici. Contiene anche quattro sitoindosidi, di cui i sitoindosidi IX e X sono derivati glicosilati del witanolide, witaferina A, mentre i sitoindosidi VII e VIII sono acil-glucosidi a catena lunga. Data la loro struttura steroidea, è verosimile che essi possano agire su svariati sistemi enzimatici ormone dipendenti, o condizionare le reazioni enzimatiche che portano alla sintesi degli ormoni surrenalici (cortisolo, corticosterone, aldosterone ed altri). Alcuni delle saponine possiedono anche delle regioni elettrofile, ovvero capaci di reagire covalentemente con bersagli proteici (enzimi, sensori, fattori di trascrizione, ecc,), quindi potendo condizionare persino l’espressione genica. A parte questo gruppo di sostanze, nel ginseng indiano sono stati trovati anche alcaloidi, composti fenolici e acidi organici.
La pianta quindi è un adattogeno al pari del regolare ginseng o dell’eleuterococco; oltre al sistema nervoso, può anche esercitare i suoi effetti antistress modulando il sistema immunitario. Negli studi noti alla letteratura scientifica, l’effetto del ginseng indiano sui marcatori immunitari dipendeva dal modello animale utilizzato. In un modello di cavallo sottoposto a tipi di stress, la conta dei globuli bianchi e la percentuale di linfociti sono diminuite mentre la citochina infiammatoria IL-6 è aumentata. La polvere di radice di ginseng indiano ha invertito questi effetti, dimostrando effetti immunostimolanti e antinfiammatori. Effetti simili sono stati osservati in un modello di stress di contenzione nel ratto, dove una preparazione radicale di WS ha attenuato il declino indotto dallo stress nella conta dei linfociti T periferici (CD3+, CD4+ e CD8+), dei globuli bianchi neutrofili e di citochine come IL-2 ed INF-γ.
La sua azione sull’ansia è stata riportata almeno trent’anni fa e ci sono prove precedenti che alcune saponine del ginseng indiano abbiano affinità per i recettori A del GABA, un neurotrasmettitore collegato alla calma, la tranquillità ed il sonno. Accanto a questo meccanismo, anche un’azione antinfiammatoria ed antiossidante dell’estratto si pensa possa contribuire alla correzione del fenomeno ansioso. Il cervello è particolarmente suscettibile allo stress ossidativo e la ricerca suggerisce che i disturbi d’ansia sono caratterizzati da una diminuzione delle difese antiossidanti combinata con un aumento del danno ossidativo. Studi passati indicano che antiossidanti come l’acetil-cisteina e la vitamina E possano avere parziale azione ansiolitica nel lungo termine. Sono stati proposti diversi meccanismi attraverso i quali lo stress ossidativo contribuisce all’ansia, sia come causa che come conseguenza della neuroinfiammazione.
La piante possiede azioni adattogene e il contenuto di saponine e composti aromatici fa sì che possa avere azione antinfiammatoria, ansiolitica, antidepressiva e modulante del sistema immunitario. Una sua integrazione nella correzione dello stress è perfettamente fattibile, dato che la pianta è ben conosciuta in campo erboristico. E’ opportuno parlare con un o specialista al riguardo, che consiglierà al melgio le modalità di assunzione, le dosi e soprattutto la tempistica. Spesso, infatti, non bastano una o due settimane di cura per ripristinare o bilanciare le funzioni cerebrali. È un po’ un effetto visto anche con gli antidepressivi: prima che facciano effetto devano passare 20-30 giorni. Questo perché le cellule cerebrali hanno bisogno di modificare la loro espressione genica e la loro neurochimica deve adattarsi di conseguenza. Lo stesso vale con gli estratti erboristici: nel caso del ginseng indiano è possibile che altri effetti cercati possano comparire prima, ma tutto dipende dai parametri citati sopra.
- A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD; specialista in Biochimica Clinica.
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