Nel 1968 il sociologo statunitense Erving Goffman definì lo stigma come un “fenomeno in base al quale una persona è screditata o respinta dalla società a causa di un particolare attributo che ne danneggia la normale identità”. Tutti avranno sentito o percepito questa sensazione o problema anche oggi riguardo a condizioni mediche e non, come coloro che sono affetti da AIDS, i grandi obesi, gli omosessuali, chi ha malattie mentali invalidanti ed altro ancora. Questi individui possono avere interferenze col loro piano di cura per la presenza di pregiudizi che si ripercuotono sulla salute fisica, ma soprattutto mentale, dell’individuo. Il processo di stigmatizzazione può avvenire in ogni luogo, a cominciare dagli ambienti scolastici e di lavoro, passando da quelli familiari, per finire in quelli sociali ed anche sanitari.
Bisogna perciò fare attenzione fra stigma vero e quello percepito. Il primo è reale e si vede con atti fisici, verbali o misti; il secondo può semplicemente essere una sensazione o una convinzione della persona in assenza di evidenti segni reali. Uno stigma sociale e sanitario riguarda anche l’epilessia, per la quale lo stigma è sia individuale che esterno. Questo può far sembrare la situazione peggiore di quanto sia realmente per il paziente, portandolo all’isolamento sociale. Probabilmente nel passato era peggio, come nel Medioevo, quando la condizione era percepita come sintomo di possessione diabolica. Anche ai tempi dei greci e dei romani l’epilessia era vista come discriminante, anche se il suo appellativo “morbo sacro” probabilmente rendeva gli individui solamente “particolari” e da trattarli “con le pinze”.
Oltre alle implicazioni sociali lo stigma ha un peso importante anche sulla salute e sulla qualità di vita. Invero, tanto più è alto il livello di stigma percepito tanto minore è la soddisfazione sui vari aspetti dell’assistenza che si riceve, contando anche che le difficoltà di gestione della terapia sono maggiori, con una conseguente ridotta aderenza ad essa. Anche numerose pubblicazioni scientifiche, anche attraverso l’adozione di scale formali di valutazione del livello di stigma e della qualità della vita, ne hanno dimostrato l’associazione con ansia e depressione. Fortunatamente le forme più diffuse sono quelle in cui l’attacco comiziale porta il soggetto a riversarsi al suolo ed avere l’attacco classico in cui evitare di fargli morsicare/ingoiare la lingua può evitare di farlo morire soffocato.
In tal caso le persone possono spaventarsi o addurre un senso di compassione. E’ diverso il caso per le forme più rare o complesse in cui si possono avere comportamenti anomali, deficits intellettivi o di personalità che possono mettere a rischio sia il paziente che coloro che gli stanno accanto. Molti, per esempio, non conoscono il fenomeno della “fuga epilettica”, in cui il soggetto diventa preda di una allucinazione confabulatoria che lo porta a spostarsi, viaggiare e compiere azioni “realissime” per al sua mente, ma totalmente disconnesse dalla realtà per gli altri. Dopo che l’evento termina, il malcapitato può ritrovarsi in un posto che non conosce, essendosi spostato persino con mezzi pubblici ed aver raggiunto luoghi e fatto azioni di cui è incapace a rispondere o giustificarsi.
In Italia esiste la Lega italiana contro l’epilessia (LICE), che conta molte adesioni, il cui scopo è tutelare la salute, i diritti e le componenti socio-economiche dei pazienti affetti. Altro compito dell’associazione (e di altre analoghe e vicarianti) è quello di sensibilizzazione. Nonostante l’epilessia sia una condizione neurologica ben caratterizzata e le possibilità di informazione, aggiornamento e partecipazione siano in crescita, le conoscenze della popolazione generale in proposito sono ancora scarse, e ciò contribuisce allo stigma. Per esempio secondo la metà degli intervistati da membri della LICE l’epilessia è una malattia psichiatrica, e molti la ritengono ereditaria, incurabile e necessariamente soggetta a sostanziali limitazioni e restrizioni nella vita quotidiana.
Lo stesso può dirsi in ambito scolastico e lavorativo, dove ignoranza e disinformazione possono rendere difficile la convivenza di scolari/lavoratori con questo problema. Fortunatamente, interventi nelle scuole e sul luogo di lavoro, mirati a specifici sottogruppi di popolazione, appaiono promettenti e costo-efficaci, rispetto a campagne educazionali pubbliche su larga scala. Per tale ragione, negli ultimi anni la LICE ha portato avanti iniziative in ambito scolastico con corsi e campagne di aggiornamento per insegnanti e studenti e linee guida di intervento in caso di crisi epilettica, condivise a livello regionale e nazionale con gli uffici scolastici. Il personale lì è istruito ed istruisce sul trattamento immediato delle crisi e sulla possibile somministrazione di farmaci per il soggetto colpito.
Per ultimo, forse tutti non sanno che spesso una diagnosi di epilessia può diventare un ostacolo alle possibilità di impiego lavorativo. Ed ha anche le sue ripercussioni giuridiche. Per esempio, quando le crisi epilettiche si presentano per la prima volta in un adulto che svolgeva normali attività lavorative, potrebbe incappare in pesanti restrizioni magari temporanee ma comunque potenzialmente catastrofiche per le sue possibilità di sostentamento. Per ridurre la discriminazione, la vigilanza sulle normative correnti e l’emanazione di leggi “ad hoc”, rappresentano uno tra gli obiettivi principali del Piano decennale dell’OMS. Per adesso non sono previsti neppure supporti economici per casi come questi; e nonostante gli ostacoli burocratici le cose si stanno (seppur lentamente) muovendo.
- A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.
Pubblicazioni scientifiche
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