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Fibrosi polmonare idiopatica: tra “acceleratori” e “freni” molecolari, la possibilità di usare farmaci esistenti per condizioni simili

Il tipo più comune di fibrosi polmonare è idiopatica, ovvero con causa sconosciuta. I ricercatori stanno cercando urgentemente di trovare modi per prevenire o rallentare la fibrosi polmonare idiopatica (IPF) e le condizioni polmonari correlate, che possono causare un peggioramento della mancanza di respiro, tosse secca e affaticamento estremo. La sopravvivenza media dopo la diagnosi di IPF è di soli 3-5 anni. Solo due farmaci approvati, pirfenidone e nintedanib, possono rallentare significativamente l’esito finale, ma la malattia non ha una cura risolutiva. Un recente studio condotto da un team della Divisione di Medicina polmonare e di Terapia intensiva presso la UM Medical School ha investigato un percorso utilizzato durante la normale guarigione delle cicatrici polmonari che ha il potenziale di invertire l’IPF.

Il processo attraverso il quale il danno polmonare porta alla guarigione o alla fibrosi dipende dai fibroblasti, che formano il tessuto connettivo. Durante la malattia, i fibroblasti si attivano, diventando miofibroblasti che formano tessuto cicatriziale secernendo collagene. Una volta terminato il lavoro, questi fibroblasti devono essere disattivati, o de-differenziati, per tornare al loro stato di quiete o subire la morte cellulare programmata ed essere eliminati. Tale disattivazione è controllata da freni molecolari. La via delle MAP-chinasi è centrale per numerosissimi processi cellulari, ma non tutte le MAP-chinasi sono uguali. Le ERKs servono alla duplicazione cellulare, mentre JNKs e p38 per rispondere agli stimoli esterni ed a molti tipi di stress. I loro freni molecolari sono le MAP-chinasi fosfatasi (MKPs), che hanno delle specificità dedicate.

Lo studio ha esaminato una di queste fosfatasi, chiamata MKP1, che il team ha scoperto essere espressa a livelli più bassi nei fibroblasti di pazienti con IPF. E chi permette questo è il fattore di crescita trasformante (TGF-beta), che è proprio una delle citochine responsabile della fibrosi ingravescente nella malattia. Eliminando geneticamente MKP1 nei fibroblasti dei topi dopo aver accertato la lesione polmonare, il team ha visto che la fibrosi continuava incontrollata. Utilizzando un modello murino, hanno simulato l’IPF somministrando bleomicina, un agente chemioterapico che provoca fibrosi nei polmoni e hanno confermato che la cicatrizzazione polmonare risultante si è risolta nell’arco di circa sei settimane. Purtroppo al giorno 63, pur vedendo quella bella risoluzione, gli scienziati hanno ancora la fibrosi sotto gli occhi.

Hanno quindi ragionato per contraddizione: quando si elimina questo freno, la fibrosi che altrimenti scomparirebbe naturalmente, persiste e quindi la MKP1 serve per la risoluzione spontanea della fibrosi stessa. Hanno così eseguito diversi studi aggiuntivi utilizzando tecniche CRISPR, per dimostrare come MKP1 applica i freni principalmente disattivando la MAP-chinasi p38α, che è implicata nella reazione di una cellula allo stress e all’infiammazione. Il paradosso è che neppure gli inibitori di p38 (che esistono da tempo), possono risultare utili. Inoltre, hanno dimostrato che nessuno dei due attuali farmaci approvati per la IPF, pirfenidone e nintedanib, è in grado di disattivare i miofibroblasti. L’unico modo di ripristinare il tutto è usare antagonisti del TGF-beta o trovare una molecola “ingegnerizzata” appositamente che attivi direttamente MKP1.

Purtroppo delle MKPs esistono gli inibitori, perché il loro ruolo principalmente indagato nella ricerca è stato quello a carico dei tumori. Eppure, il team ha scoperto che la nota via cellulare dell’AMP ciclico accoppiato alla sua proteina chinasi (cAMP/PKA), è in grado di regolare efficacemente l’espressione di MKP1. Questo è in accordo con gli effetti farmacologici degli inibitori della fosfodiesterasi dell’AMP ciclico (PDE4) che sono correntemente usati in una condizione analoga alla IPF: la broncopatia cronica ostruttiva o BPCO. Molecole come roflumilast e tofimilast sono efficaci per gestire questa condizione. Un trial clinico recentissimo ha pure dimostrato che un inibitore PDE4 è preliminarmente efficace sulla IPF; in questo caso, anche qui la fibrosi non scompare ma c’è un buon rallentamento dell’ingravescenza.

E’ sempre una nozione utile per poter giocare con il riposizionamento farmacologico (drug repurposing) e dedicare farmaci esistenti per altre condizioni, invece investire denaro in indagini che richiedono anni di lavoro e “intrinseci” possibili fallimenti.

  • A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.

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Pubblicazioni scientifiche

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Caunt CJ, Keyse SM. FEBS J. 2013; 280(2):489-504.

Brondello JM et al. J Biol Chem. 1997; 272(2):1368.

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Dott. Gianfrancesco Cormaci
Dott. Gianfrancesco Cormaci
Laurea in Medicina e Chirurgia nel 1998; specialista in Biochimica Clinica dal 2002; dottorato in Neurobiologia nel 2006; Ex-ricercatore, ha trascorso 5 anni negli USA (2004-2008) alle dipendenze dell' NIH/NIDA e poi della Johns Hopkins University. Guardia medica presso la casa di Cura Sant'Agata a Catania. Medico penitenziario presso CC.SR. Cavadonna (SR) Si occupa di Medicina Preventiva personalizzata e intolleranze alimentari. Detentore di un brevetto per la fabbricazione di sfarinati gluten-free a partire da regolare farina di grano. Responsabile della sezione R&D della CoFood s.r.l. per la ricerca e sviluppo di nuovi prodotti alimentari, inclusi quelli a fini medici speciali.

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