La pandemia di COVID-19 è stata una delle calamità sanitarie pubbliche più gravi dell’ultimo decennio, causando milioni di morbilità e mortalità a livello globale. Inoltre, ricerche emergenti indicano che la malattia provoca sequele a lungo termine che durano mesi dopo la guarigione dall’infezione iniziale. Questi sintomi post-COVID-19, chiamati anche sequele post-acute di COVID 19 (PASC) o malattia da coronavirus lungo (COVID lungo), hanno un impatto su vari sistemi di organi diversi dagli organi polmonari, provocando anche sintomi neurocognitivi, cardiovascolari e muscolari. Studi recenti si sono concentrati sulla comprensione dei fattori e dei meccanismi di rischio del COVID a lungo termine. Inoltre, mentre sono state osservate sequele a lungo termine anche in altre infezioni virali, come il morbillo, l’influenza e la mononucleosi, la PASC è unica nella sua capacità di colpire più sistemi di organi.
I sintomi più vari possono includere affaticamento, dispnea, insonnia, “nebbia cerebrale”, depressione, palpitazioni cardiache e insufficienza renale. In uno studio molto recente, i ricercatori hanno condotto un’analisi longitudinale tra individui che non erano stati vaccinati contro la SARS-CoV2 per determinare i cambiamenti dei parametri immunitari umorali e cellulari nell’arco di 10 mesi dopo la prima infezione. Lo studio ha rilevato che gli individui che si erano ripresi da COVID-19 avevano una conta assoluta inferiore di monociti, granulociti e linfociti rispetto alla coorte di controllo sana. Anche i livelli circolanti di neutrofili negli individui infetti erano significativamente inferiori a quelli degli individui non infetti. I livelli di espressione di CD38 e dell’isotipo DR dell’antigene leucocitario umano (HLA-DR) erano più alti negli individui infetti Ciò significa che i livelli di cellule T citotossiche CD8+ erano elevati dopo un’infezione da SARS-CoV2.
I livelli di cellule T citotossiche sono rimasti elevati anche dopo dieci mesi nei pazienti affetti da COVID-19 grave. Gli individui nella coorte infetta da SARS-CoV-2 hanno mostrato anche livelli elevati di cellule di memoria effettrici che esprimono CD3, CD4 e CD8, ma livelli più bassi di linfociti T regolatori. I ricercatori ritengono che i loro risultati supportino le teorie proposte in altri studi sul danno tissutale esteso dovuto al grave COVID-19 o alla persistenza a lungo termine degli antigeni nel corpo e alla continua diffusione virale. Spiegazioni alternative includono anche l’attivazione persistente delle cellule T a causa dell’aumento dei livelli di IL-4 e IL-17A nel siero, entrambi elevati nei campioni di siero della coorte infetta da SARS-CoV-2 nello studio. In sintesi, questi dati forniscono una possibile spiegazione del fatto che alcune manifestazioni del COVID-19 a lungo termine, possano essere associate al danno del sistema immunitario cellulare da parte del SARS-CoV2.
Ma non è l’unica novità in tema di reazioni immunitarie al coronavirus. I ricercatori del Centre for Drug Safety Science dell’Università di Liverpool hanno identificato risposte immunitarie impreviste delle cellule T ai vaccini COVID-19 adenovirali (Oxford/AstraZeneca e Janssen), ma non ai vaccini a base di mRNA. Utilizzando campioni di sangue di partecipanti sani raccolti dieci anni prima della pandemia di Covid-19, e quindi prima che qualsiasi vaccino contro il COVID fosse sviluppato, i ricercatori hanno studiato come le cellule immunitarie nel sangue, compresi i linfociti T, rispondevano ai diversi tipi di vaccino. Lo studio ha dimostrato che tra il 90 e il 95% dei partecipanti che hanno donato campioni di sangue hanno prodotto inaspettatamente forti risposte delle cellule T in seguito all’esposizione ai vaccini adenovirali in un ambiente di laboratorio.
Il vaccino AstraZeneca, oggi non più in uso ma somministrato a più di 3 miliardi di persone in tutto il mondo, è stato sviluppato a partire dall’adenovirus degli scimpanzé perché studi precedenti avevano mostrato una bassa frequenza di anticorpi che reagivano contro questo virus. Questa bassa frequenza aiuterebbe quindi a sviluppare una risposta immunitaria protettiva al virus COVID-19. Questa nuova scoperta di forti risposte delle cellule T nei campioni di sangue pre-pandemia è quindi inaspettata e suggerisce che esiste una diffusa reattività crociata tra gli adenovirus utilizzati nei vaccini e gli adenovirus che circolano naturalmente ad alti livelli nella popolazione umana. Essi, infatti, sono largamente responsabili di gastroenteriti, congiuntiviti, tonsilliti, polmoniti e sindromi simil-influenzali (come il tipo B7).
Gli adenovirus vengono spesso trasmessi tramite tosse (aerosol), ma possono anche essere trasmessi tramite particelle virali lasciate su oggetti come asciugamani e maniglie di rubinetti. Alcune persone affette da gastroenterite da adenovirus possono eliminare il virus nelle feci per mesi dopo aver superato i sintomi. Il virus può essere trasmesso attraverso l’acqua delle piscine che non sono sufficientemente clorate. Non è molto difficile, perciò, ritrovarseli negli ambienti affollati dove la loro probabilità di trasmissione è massima. L’aver usato un vaccino ad adenovirus, sebbene di scimpanzè, per la vaccinazione anti-COVID potrebbe perciò aver fatto sviluppare una sorta di immunità protettiva contro infezioni causate da questa famiglia.
- A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.
Pubblicazioni scientifiche
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