martedì, Aprile 1, 2025

Artrite reumatoide: la malattia che vuole nuovi bersagli molecolari e quindi nuove categorie di farmaci

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L’artrite reumatoide (ARE) colpisce l’1% della popolazione mondiale. Nella malattia autoimmune, il corpo inizia ad attaccare le proprie cellule, rendendo le articolazioni rigide, gonfie e doloranti. Nel tempo, questo può danneggiare articolazioni, cartilagine e ossa, rendendo difficili le attività quotidiane. I trattamenti tipici prevedono immunosoppressori ampi, come steroidi, o biologici che inibiscono specifiche citochine, ma questi possono perdere efficacia nel tempo e possono mettere gli individui a maggior rischio di cancro, infezioni e altri rischi. Ecco perché, oltre e prendere di mira il sistema immunitario, gli scienziati stanno trovando altri bersagli cellulari al di fuori di quelli immunitari, dentro le cellule cartilaginee o i fibroblasti sinoviali, che sono le cellule bersaglio del danno biologico.

Per esempio, le proteine ​​disolfuro-isomerasi (PDI) sono enzimi essenziali che facilitano il corretto ripiegamento delle proteine ​​e mantengono la qualità delle proteine ​​all’interno del reticolo endoplasmatico. La disregolazione delle PDI è stata correlata a numerosi disturbi, tra cui cancro e la stessa artrite reumatoide. E64FC26 (EFC), una piccola molecola che inibisce un’ampia gamma di membri della famiglia PDI, ha mostrato risultati promettenti come agente terapeutico in oncologia. Invece, ricercatori della Shandong Academy of Medical Sciences, in Cina, ha testato la possibilità che il farmaco possa funzionare nel correggere alcuni difetti molecolari dell’ARE, legati al cattivo ripiegamento proteico che potrebbe dettare la comparsa di auto-antigeni.

EFC agisce come un inibitore covalente legandosi irreversibilmente ai residui di cisteina attivi nel dominio catalitico delle PDI come o-chinone reattivo. Questo legame impedisce alle PDI di tornare al loro stato monomerico ossidato, interrompendo la formazione di legami disolfuro nelle proteine ​​non ripiegate e impedendo il rimodellamento delle proteine mal​​ripiegate. Di conseguenza, questa inibizione porta a un aumento delle proteine ​​ripiegate in modo improprio. Nel modello sperimentale animale CIA, l’EFC è stato somministrato per via intraperitoneale a una dose di 5 mg/kg dal giorno 22 al giorno 49 dopo l’immunizzazione iniziale. Il trattamento ha ridotto significativamente i punteggi di artrite e il gonfiore delle zampe nei topi resi malati.

Questo perchè il farmaco ha permesso la riduzione di citochine infiammatorie circolanti, come TNF-alfa, IL-6, IL-8 ed IL-1α. Sembra che EFC permetta l’attivazione della via intracellulare Ras-MAPK; pertanto, i ricercatori valutato lo stato di fosforilazione di c-Akt ed ERK1/2 in seguito al trattamento con il farmaco. EFC ha inibito efficacemente la fosforilazione di AKT ed ERK1/2, con effetti inibitori più pronunciati nei fibroblasti sinoviali malati, rispetto ai globuli bianchi o ai macrofagi. Ha impedito anche la fosforilazione della subunità p65 del fattore di trascrizione NF-kB, la cui funzione è regolata proprio da una della PDI, la TXNDC5, che è anche lei sensibile all’inibizione da parte di EFC e la cui funzione permette la progressione dell’ARE.

Inoltre, i parametri ossei dei tessuti animali analizzati come la densità minerale ossea trabecolare (Tb.BMD), la frazione di volume osseo (BV/TV%), il numero trabecolare (Tb.N) e lo spessore trabecolare (Tb.Th) erano considerevolmente più bassi nei topi CIA rispetto ai controlli sani. Questi risultati in vivo sono in linea con le osservazioni in vitro, dimostrando che l’EFC non solo agisce a livello cellulare, ma conferisce anche benefici terapeutici all’intero organismo, riducendo l’infiammazione sinoviale e preservando l’integrità articolare. Ciò convalida il potenziale dell’EFC come farmaco antinfiammatorio per il trattamento dell’ARE, anche se non è chiaro se possa essere efficacemente associato alle terapie esistenti per migliorare i risultati clinici nei casi refrattari.

Un’altra ricerca condotta York University rivela come una specifica mutazione nella proteina trasduttiva TRAF1 possa bloccare una risposta immunitaria iperattiva, riducendo drasticamente l’infiammazione nei topi. Il ricercatore principale Ali Abdul-Sater afferma che questa scoperta potrebbe aprire la strada a una nuova classe di farmaci per il trattamento dell’artrite reumatoide. Lo studio sarà pubblicato nel numero di marzo del Journal of Autoimmunity. Utilizzando la tecnologia di editing genetico, i ricercatori hanno identificato una mutazione critica della proteina TRAF1 associata a dei recettori immunitari, e hanno scoperto che essa riduce drasticamente l’infiammazione interrompendo un’interazione molecolare critica che spinge il sistema immunitario a farlo andare in “overdrive”.

TRAF1 svolge un ruolo centrale nella segnalazione immunitaria ed è nota per i suoi doppi ruoli: aiuta ad amplificare la segnalazione infiammatoria in alcuni contesti e allo stesso tempo agisce da freno per limitare le risposte iperattive. Questi ruoli opposti hanno reso TRAF1 un obiettivo difficile per l’intervento terapeutico, fino ad ora. Una singola mutazione in posizione valina 196 (V196), hanno scoperto i ricercatori, blocca selettivamente l’interazione di TRAF1 con un’altra proteina, c-IAP2, che è antagonista della morte cellulare apoptotica e smorza un importante percorso infiammatorio innescato da recettori responsabili del rilevamento di infezioni e danni ai tessuti. La mutazione blocca efficacemente una cascata di eventi molecolari che determinano un’infiammazione eccessiva.

La mutazione critica in TRAF1 V203A negli esseri umani, analogamente a quella V196A nei topi, interrompe la sua interazione con cIAP2, portando a una significativa riduzione della segnalazione del recettore TLR4 e dell’infiammazione a valle nei macrofagi umani e murini. I ricercatori hanno dimostrato che TRAF1 viene reclutato nel complesso TLR4 ed è indispensabile per il reclutamento di cIAP2, facilitando la fosforilazione di TAK1 e l’attivazione delle vie di segnalazione NF-κB e MAPK. Sorprendentemente, i topi che ospitano la mutazione TRAF1 V196A sono protetti dallo shock settico indotto da LPS e mostrano un’infiammazione articolare e una gravità della malattia notevolmente ridotte nel modello sperimentale CIA della malattia.

Ed infine anche i fattori di trascrizione, sebbene sia un’impresa più difficile, possono essere un potenziale bersaglio per trattare l’ARE. Escludendo l’NF-kB la cui disattivazione ha effetti troppo generali sul corpo, gli scienziati si stanno applicando su altre proteine nucleari coinvolte nell’espressione genica che guida la malattia. Uno di questi potrebbe essere Elk-3, un repressore trascrizionale che può influenzare la proliferazione, la migrazione, l’invasione, l’apoptosi e altri processi cellulari. Uno studio ha voluto chiarire l’effetto di Elk-3 nell’attività biologica e nel fenotipo della ferroptosi dei sinoviociti fibroblasto-simili (FLS) dell’ARE e a rivelare il suo meccanismo molecolare nella regolazione della ferroptosi in queste cellule.

La ferroptosi è una tipologia di morte apoptotica in cui interviene lo stress ossidativo indotto dall’interazione degli ioni ferro con i radicali liberi. ELK3 è stato trovato altamente espresso in ARE, il suo silenziamento ha inibito l’invasione e la proliferazione di fibroblasti patologici. Dopo aver silenziato Elk-3 in queste cellule, le specie reattive dell’ossigeno intracellulare, i livelli di perossidazione lipidica, il contenuto di ioni ferrosi, i livelli di 4-idrossinonenale (4-HNE) e di malondialdeide (MDA) sono tutti aumentati. Inoltre, Elk-3 ha influenzato la ferroptosi regolando Keap-1, il naturale inibitore intracellulare del fattore di trascrizione Nrf-2. Quest’ultimo è ben noto per proteggere le cellule dallo stress ossidativo permettendo l’espressione di proteine ed enzimi antiossidanti.

La progettazione di nuove terapie che interferiscono specificamente con il ripiegamento proteico indotto dalle PDIs, con l’interazione cIAP2-TRAF1 o che sopprime l’attivià trascrizionale di Elk-3 potrebbe portare a nuove generazioni di farmaci per la terapia dell’artrite reumatoide.

  • A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.

Pubblicazioni scientifiche

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Dott. Gianfrancesco Cormaci
Dott. Gianfrancesco Cormaci
Laurea in Medicina e Chirurgia nel 1998; specialista in Biochimica Clinica dal 2002; dottorato in Neurobiologia nel 2006; Ex-ricercatore, ha trascorso 5 anni negli USA (2004-2008) alle dipendenze dell' NIH/NIDA e poi della Johns Hopkins University. Guardia medica presso la Clinica Basile di catania (dal 2013) Guardia medica presso la casa di Cura Sant'Agata a Catania (del 2020) Medico penitenziario presso CC.SR. Cavadonna dal 2024. Si occupa di Medicina Preventiva personalizzata e intolleranze alimentari. Detentore di un brevetto per la fabbricazione di sfarinati gluten-free a partire da regolare farina di grano. Responsabile della sezione R&D della CoFood s.r.l. per la ricerca e sviluppo di nuovi prodotti alimentari, inclusi quelli a fini medici speciali.

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