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Infezioni intestinali da Clostridium difficile: perchè stanno diventando frequenti anche in comunità?

E’ ormai risaputo che una risposta immunitaria disregolata nelle malattie infiammatorie come il morbo di Crohn e la colite ulcerosa, ha dimostrato di dipendere da una disfunzione del microbiota. È stato anche provato che i cambiamenti nella composizione o densità del microbiota aumentano la suscettibilità ad una varietà di agenti patogeni e risposte immunitarie mucose anormali nell’uomo e nei modelli murini. Ad esempio, le variazioni indotte da una terapia antibiotica nel topo o nell’uomo aumentano la suscettibilità alle infezioni da Clostridium difficile. L’infezione da C. difficile (CDI) è una causa potenzialmente grave e pericolosa per la vita, specie negli anziani debilitati o con severe co-morbilità. Sebbene la CDI sia spesso associata a degenze ospedaliere, le infezioni insorte nella comunità sono ora più comuni. Mentre quasi la metà delle infezioni insorte nella comunità sono definite associate alla comunità, i dati indicano che la maggior parte di questi pazienti (82%) ha avuto una visita ambulatoriale entro 12 settimane dal test positivo per il batterio.

Dati preliminari appena pubblicati, inoltre, indicano che il ruolo della contaminazione animale verso l’uomo non è così improbabile. Esami di campioni per C. difficile in 14 allevamenti di suini in Danimarca ha rilevato la condivisione di più geni di resistenza agli antibiotici tra maiali e pazienti umani, fornendo prove che la trasmissione da animale a uomo (definita zoonotica) è possibile. In totale, tredici tipi di sequenza trovati negli animali corrispondevano a quelli trovati nei campioni di feci dei pazienti. C difficile ST11, un ceppo associato agli animali, era il più comune. In sedici casi, i ceppi ST11 nell’uomo e negli animali erano identici. Tutti gli isolati di animali erano positivi per i geni della tossina e dieci erano anche ipervirulenti, con una capacità ancora maggiore di causare malattia. In totale, 38 isolati degli animali contenevano almeno un gene di resistenza verso gli antibiotici più usati nella pratica clinica. Il punto preoccupante è che qualche gene di resistenza riguardava l’antibiotico vancomicina (Targosid), che è usato in ambito ospedaliero come farmaco salva-vita anche per le stesse infezioni da C. difficile.

Gli antibiotici causano vulnerabilità alla CDI interrompendo il normale microbiota del colon e fornendo un ambiente in cui le spore di C. difficile possono germinare nell’intestino tenue e quindi passare attraverso l’intestino crasso dove si moltiplicano e causano la diarrea. Le spore di C. difficile, che vengono trasmesse per via oro-fecale, possono persistere su qualsiasi superficie, dispositivo o materiale che viene contaminato. Questi serbatoi di infezione preparano il terreno per il trasferimento delle spore ai pazienti, letteralmente, per mano degli operatori sanitari. Un precedente trattamento antibiotico è il singolo fattore di rischio più importante per la CDI. Su 100 pazienti con diagnosi di CDI dopo recente dimissione ospedaliera, il 95% di essi hanno ricevuto antibiotici nei precedenti 90 giorni, in vari regimi di ricovero. In particolare, i fluorochinoloni e le cefalosporine comunemente utilizzati, sembrano i più responsabili. In parole povere, essi fanno “terra bruciata” di altre specie batteriche che soccombono alla loro azione e lasciano campo libero al C. difficile che, invece, è naturalmente resistente alla loro azione battericida.

L’uso appropriato di questi antibiotici, invece, è fondamentale per ridurre l’incidenza di CDI. Poiché l’uso di questi antibiotici si estende alle pratiche comunitarie, gli sforzi di amministrazione dovrebbero estendersi anche alla comunità. Un altro fattore di rischio per le CDI è la nutrizione parenterale, perché i pazienti col sondino richiedono più tempo “a disposizione” dai professionisti del settore sanitario, aumentando la possibilità di trasmissione e ingestione di spore. In aggiunta, potrebbe esserci un’importante alterazione del microbiota intestinale dovuta alla nutrizione stessa. Un ultimo fattore farmacologico sembra positivamente correlato con la maggiore incidenza di CDI: l’uso di farmaci oppioidi. Questi potenti analgesici relativamente economici, sono ampiamente prescritti e utilizzati in tutto il mondo per controllare il dolore. Tuttavia, il loro uso clinico è stato influenzato da preoccupazioni per fenomeni di abuso e da effetti avversi quali dipendenza e sintomi gastrointestinali. La somministrazione di oppioidi porta a stitichezza, gonfiore, permeabilità intestinale ed anche nausea e vomito.

La morfina interferisce anche con il metabolismo degli acidi biliari, un meccanismo che sembra centrale per la crescita del Clostridium difficile. Essa, infatti, interagisce con la produzione dei cosiddetti “acidi biliari secondari”, che hanno azione interferente sulla crescita di questo batterio. Assieme alla compromissione delle funzioni delle cellule immunitarie (soprattutto locali) esercitate da morfina e altri oppioidi, si comprende come l’uso cronico di questa categoria di farmaci possa rappresentare un rischio per la comparsa di CDI. L’uso di questi farmaci è tipicamente collegato al campo oncologico, dove sono un cardine per le cure palliative di fine vita. Se è vero che l’uso di oppioidi possa causare diarrea da C. difficile in pazienti terminali, questo ha un peso limitato dall’irreversibilità della situazione in cui si trovano tali pazienti. Ma in altri frangenti meno dove non esiste un pericolo di vita immediato, sarebbe opportuno valutare i pazienti in modo più oculato. Particolare attenzione sarebbe da rivolgere ai pazienti allettati cronici, diabetici e trapiantati, nei quali la copertura antibiotica previene eventuali infezioni.

Il problema posto da questo batterio “difficile” nel nome e nei fatti è perciò complesso nella sua attualità. Se da un lato la presenza inevitabile di condizioni mediche e come vengono curate possono condizionare la probabilità di contrarre un’infezione da C. difficile, dall’altro le norme igieniche sembrano avere la loro centralità. La trasmissione dell’infezione avviene per via oro-fecale; i pazienti ospedalizzati che la contraggono, infatti, vengono tenuti in stanze isolate, con protocolli sanitari ben precisi e rigorosi atti ad evitare ogni contatto con superfici e materiale di uso continuo. Come è vera la presenza di infezioni in regime di ricovero, è altrettanto vera la possibilità di contaminazione oro-fecale al domicilio con cibo contaminato. Ecco perché, tutte le verdure e gli ortaggi freschi non acquistati da supermercati vanno sempre lavati accuratamente prima del consumo a crudo; la bollitura successiva conferisce ulteriore protezione. Anche per il latte fresco si consiglia di bollirlo quando viene direttamente prelevato alla fonte e lo si voglia consumare come tale.

Berlo a crudo non è prudente per la possibilità di contrarre non solo spore di Clostridium, ma anche stafilococchi, salmonelle e vari ceppi patogeni di Escherichia. Da qui la logica di curare l’igiene delle mani quando si viene a contatto con superfici o materiali organici a rischio, specie se animali.

  • A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.

Pubblicazioni scientifiche

Miller AC et al. Emerg Infect Dis. 2022; 28(5):932-39.

Medaglia AA et al. Infection. 2021; 49(6):1221-1229.

Rosignoli C et al. J Clin Med. 2020 Nov; 9(11):3673.

Magill SS et al. New Engl J Med. 2018; 379(18):1732.

Wang F and Roy S. Toxicol Pathol. 2017; 45(1):150.

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Dott. Gianfrancesco Cormaci
Dott. Gianfrancesco Cormaci
Laurea in Medicina e Chirurgia nel 1998; specialista in Biochimica Clinica dal 2002; dottorato in Neurobiologia nel 2006; Ex-ricercatore, ha trascorso 5 anni negli USA (2004-2008) alle dipendenze dell' NIH/NIDA e poi della Johns Hopkins University. Guardia medica presso la casa di Cura Sant'Agata a Catania. Medico penitenziario presso CC.SR. Cavadonna (SR) Si occupa di Medicina Preventiva personalizzata e intolleranze alimentari. Detentore di un brevetto per la fabbricazione di sfarinati gluten-free a partire da regolare farina di grano. Responsabile della sezione R&D della CoFood s.r.l. per la ricerca e sviluppo di nuovi prodotti alimentari, inclusi quelli a fini medici speciali.

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