L’infiammazione acuta è una risposta protettiva all’infezione che promuove la rigenerazione dei tessuti dopo la lesione. Una volta che la sua funzione è stata svolta, una serie di meccanismi regolati dai lipidi che agiscono da mediatori sono responsabili della sua risoluzione. Un errore nella risposta di risoluzione provoca un’infiammazione incontrollata che è dannosa per i tessuti. Nella sclerosi multipla l’infiammazione è persistente e gioca un ruolo chiave nello sviluppo della malattia. C’è sempre un bilanciamento fra infiammazione e meccanismi atti a risolverla. Quando ciò non succede, per esempio per il permanere di stimoli continui, l’infiammazione persiste e causa problemi di salute la cui gravità dipende dal tessuto colpito.
È il caso delle malattie autoimmuni, come artrite reumatoide, lupus sistemico e sclerosi multipla, nelle quali l’aggressione immunitaria continua perpetra l’infiammazione a carico degli organi bersaglio. Solo l’immunosoppressione farmacologica è capace di interferire, con intensità variabile, i fenomeni infiammatori e le loro conseguenze. La risoluzione dell’infiammazione dipende in parte dalla produzione di mediatori non-proteici derivati dal metabolismo degli acidi grassi poli-insaturi, meglio conosciuto come omega-3. La loro conversione metabolica origina molecole ossigenate alcune delle quali hanno effetto antinfiammatorio e definito “risolvente”. I loro effetti sono stati testati in varie patologie come per il morbo di Parkinson, la malattia di Crohn ed altri contesti di infiammazione cronica.
Adesso, un gruppo di ricerca guidato da Rubén López-Vales, professore di Fisiologia presso il Neuroplasticity and Regeneration Group dell’Università di Barcellona, è riuscito a ridurre l’infiammazione cronica associata alla sclerosi multipla nel modello sperimentale della malattia (EAE), somministrando uno dei mediatori risolutivi dell’infiammazione, il biolipide chiamato maresina-1. La sostanza ha esercitato un effetto terapeutico sui topi, riducendo drasticamente la quantità di citochine infiammatorie, nonché il numero di cellule del sistema immunitario sia nel midollo spinale che nel sangue. Nell’indagine sperimentale in collaborazione con l’Università di Montreal e l’Universidad de La República in Uruguay, i ricercatori hanno esaminato campioni di pazienti con sclerosi multipla e modelli di topi, e hanno scoperto che c’era una produzione insufficiente di maresina-1.
I livelli di questa sostanza, che erano appena rilevabili, impedivano l’arresto del processo infiammatorio. Una somministrazione continua di maresina-1 ha protetto nel tempo i neuroni dalla demielinizzazione e migliorato gli effetti del deterioramento neurologico della malattia stessa. Si sa, infatti, che alcune citochine immunitarie possono risultare lesive e persino mortali per le cellule neuronali; ed alcune di loro sono proprio responsabili della perdita dello strato mielinico nella sclerosi multipla. Lo studio indica la terapia con mediatori che risolvono l’infiammazione come una strategia innovativa e promettente per il trattamento della sclerosi multipla e di altre malattie autoimmuni. L’uso di questi mediatori potrebbe diventare una buona strategia per il trattamento di questa malattia autoimmune.
Per esempio, ci sono dati che riguardano un altro mediatore lipidico chiamato palmitoli-etanolamide (PEA), che è ormai usato anche come integratore a fini medici speciali in caso di infiammazioni a carico del sistema nervoso. Tra queste la neuromielite ottica, gli esiti di ictus cerebrale e adesso pare anche per gli esiti da coronavirus, per i quali si sostiene la presenza di infiammazione cronica non risolta (long-COVID). La PEA è anch’essa un lipide, ma appartiene alla classe degli endocannabinoidi ed ha azione sia antidolorifica che antinfiammatoria. La sua produzione e catabolismo vengono controllate da una precisa catena enzimatica cellulare. Anche questa sostanza è stata testata nel contesto della sclerosi multipla, ma essendo un metabolita che va incontro a degradazione enzimatica, la sua efficacia è risultata parziale.
Ecco perché nel suo caso la strategia è quella di usare inibitori competitivi dell’enzima imputato, la NAAA, della quale sono stati trovati inibitori sia naturali che sintetici. Appare evidente, perciò, che il futuro del trattamento delle autoimmunità è ricorrere alla biomedicina ed agli interventi personalizzati, che consentono azioni più mirate e minori effetti secondari.
- A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.
Pubblicazioni scientifiche
Sanchez-Fernandez A et al. J Neuroinflammation 2022; 19(1):27.
Zahoor I, Giri S. Clin Rev Allergy Immunol. 2021; 60(2):147-163.
Pontis S, Palese F et al. Pharmacol Res. 2020 Oct; 160:105064.