Sequele post-acute da COVID (PASC) è una condizione medica riconosciuta, che non ha però una definizione o un trattamento accettati. Non può essere definita come COVID lungo, perché questo comprende delle manifestazioni di tutto il corpo che non sono tipiche della PASC. In un certo senso, è possibile che si avvicini di più ad un neuro-post-COVID. Questa condizione può far precipitare una crisi sanitaria globale a causa del dolore cronico, della debolezza e della perdita di funzionalità associate a questa condizione. Non bisogna dimenticare, infatti, che il dolore cronico da mal di schiena, mal di testa, dolori ginecologici (es. endometriosi), fibromialgia ed RLS sono un serissimo problema di salute pubblica. Solo negli Stati Uniti, circa 2 pazienti su 10 ricoverati in ospedale con COVID-19 sviluppano PASC entro sei mesi. In confronto, tra i pazienti non ospedalizzati, oltre il 10% ha sintomi cronici che persistono dopo sei mesi. Si stima che nel mondo ci siano 54 milioni di persone con la PASC.
In assenza di linee guida terapeutiche, una letteratura scientifica sta raccogliendo esperienze e sperimentazioni gratuite fatte di prescrizioni off-label. Nel 2020 si cominciò a parlare della possibilità che gli antistaminici potessero risultare utili nella gestione di questa condizione, come anche nel neuro-COVID, che condivide con la PASC dei sintomi neurologici coma la cosiddetta “nebbia cerebrale” (brain fog). Molto recentemente è stato riportato di due pazienti donne che hanno acuto il COVID nel 2021 ed hanno poi patito una sintomatologia compatibile con la PASC per molti mesi. Hanno entrambe assunto antistaminici come la idrossizina per un periodo di 9 mesi ed hanno potuto sperimentare un ritorno alle loro normali attività con una efficienza del 90%. I casi di studio della letteratura, oltre agli ultimi due riferiti dimostrano come la PASC presenti sintomi debilitanti, spesso altalenanti, che compromettono la qualità di vita. Tuttavia, il trattamento con un antistaminico ha normalizzato le attività quotidiane in entrambi i casi.
Gli antistaminici hanno dimostrato di arrestare la progressione dei sintomi e aumentare la sopravvivenza nei pazienti con COVID-19 critico. In effetti, la famotidina (un vecchio anti-H2 usato nel trattamento dell’ulcera gastrica) è risultata collegata a livelli più bassi di attivazione immunologica, il che potrebbe indicare che gli antagonisti dell’istamina riducono le possibilità di una tempesta di citochine. Gli antistaminici possono risultare di un certo beneficio anche per il neuro-COVID, nella sua sensazione di “nebbia cerebrale” (brain fog) per lo stesso principio per cui possono essere efficaci nella sintomatologia “di fatica” della sclerosi multipla. Ovvero, riducono la neuro-infiammazione che è responsabile della fatica, della debolezza muscolare, delle difficoltà di concentrazione ed altri sintomi debilitanti. Ci si chiederà: ma gli antistaminici danno facilmente sonnolenza come effetto collaterale.Come si può gestire al meglio il problema?
Questo è vero e si possono usare i vecchi antistaminici nelle ore serali, prima di andare a dormire, sfruttando anche l’effetto “sonnifero” del farmaco per un buon riposo notturno. Fra questi l’astemizolo (Arlevertan) e la terfenadina (Zirtec). Al mattino (assumendo che si prendano i farmaci 2 volte al giorno), invece, si può ricorrere alla cetirizina o alla loratadina (Claritin), che non hanno una forte influenza sulla veglia, pur mantenendo una buona penetrabilità nel sistema nervoso. Chi volesse approfondire gli argomenti, può consultare i links raccomandati in questo sito.
- A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.