La pandemia di COVID-19 rimane uno dei peggiori eventi patologici mai registrati nella storia umana, infettando circa 700 milioni di individui e causando più di 7 milioni di vittime nei tre anni successivi alla sua scoperta. Queste stime, tuttavia, sono state dichiarate incomplete dall’OMS, sia per i casi infetti che per le vittime morte. I casi reali (escluse le reinfezioni) supererebbero il miliardo e il bilancio delle vittime ha sfiorato i 18 milioni. Sfortunatamente per i sopravvissuti, è stato osservato che la condizione induce disturbi fisici e psicologici a lungo termine che persistono ben oltre l’infezione primaria della malattia. Il termine “COVID lungo” è stato definito in modo approssimativo come una malattia multisistemica caratterizzata da sintomi o comorbilità di COVID-19 persistenti o di recente sviluppo che rimangono presenti per 3 o più mesi dopo il recupero dall’infezione primaria da SARS-CoV2.
In modo allarmante, si stima che il numero di pazienti affetti da COVID-19 da lungo tempo sia compreso tra il 18% e il 70% dei sopravvissuti al COVID-19, con numeri registrati (più di 65 milioni di pazienti confermati) che si presume siano solo una frazione della sua prevalenza globale non documentata. Il Long-COVID è una malattia descritta di recente e, quindi, relativamente poco compresa. Un numero crescente di ricerche dimostra l’associazione tra COVID di lunga durata e condizioni neuropsichiatriche come depressione, insonnia, ansia e problemi cognitivi, con durate che spesso superano i sei mesi. Sfortunatamente, gli studi precedenti che miravano a valutare i rischi psichiatrici nei sopravvissuti al COVID-19 rispetto alla popolazione generale soffrono di campioni di piccole dimensioni, durate di follow-up limitate e, soprattutto, coorti di origine ospedaliera altamente distorte.
I risultati di tali studi sono confusi, frenando così gli sforzi di gestione e mitigazione del COVID a lungo termine. In un recente studio pubblicato sulla rivista Nature Human Behaviour, i ricercatori hanno utilizzato un’ampia coorte binazionale (più di 4,7 milioni di persone) per studiare le associazioni a breve e lungo termine tra le infezioni da SARS-CoV2 e i conseguenti esiti neuropsichiatrici avversi. I risultati dello studio hanno rivelato che i sopravvissuti al COVID-19 avevano un rischio significativamente più elevato di sviluppare deficit cognitivi ed altre sequele neuropsichiatriche. Le valutazioni del rischio a breve termine (<30 giorni dopo la guarigione dell’infezione) hanno rivelato che i sopravvissuti avevano un rischio sostanzialmente elevato di eventi neuropsichiatrici rispetto alla popolazione generale, con encefalite, sindrome di Guillain-Barré e insonnia ad un rischio aumentato in modo allarmante.
È incoraggiante che il rischio di eventi neuropsichiatrici a livello di paziente fosse fortemente associato alla gravità dell’infezione e allo stato vaccinale: i rischi erano inferiori nelle infezioni lievi da SARS-CoV2 e quando venivano ricevute più vaccinazioni. Sebbene lo studio abbia riguardato solamente una coorte giapponese ed una sud-coreana, è il primo a confrontare questo rischio tra i sopravvissuti al COVID-19, la popolazione generale e altre infezioni respiratorie. Considerato che, come detto prima, il problema (con tutte le sue sfaccettature di gravità) ha colpito tra il 65 ed i 70 milioni di individui in tutto il mondo, si può ritenere che ci si trova di fronte ad una specie di “pandemia silente” post-pandemica.
- A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.
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