Avete mai sentito dire alle persone “Io farmaci non ne assumo, perchè sono contrario” oppure “Non prendo farmaci se non proprio necessario, perchè fanno male” ? E’ un estremo che necessiterebbe di un confronto medico-paziente volto a far capire che assumere farmaci quando si tratta di reali necessità è doveroso per avere una buona qualità della vita. Molti, per esempio, soffrono di mal di testa per lo più di origine nervosa o da stress (cefalea muscolo-tensiva) e qui l’arena si divide in due fazioni: coloro che magari hanno una bassa soglia del dolore e non sopportano di poter stare col dolore, assumendo analgesici FANS almeno 4-5 volte alla settimana; e coloro che, vuoi per alta soglia del dolore, vuoi per abitudine o perchè convinti che “i farmaci fanno male”, evitano di prendere un antidolorifico se non proprio quando oltrepassano il limite della sopportazione.
Senza voler criticare le scelte delle due fazioni, è desiderio di questa redazione scientifica ricordare che (rimanendo in tema) la cefalea è un grosso problema di disabilità a livello mondiale: l’OMS riposta cha almeno il 15% della popolazione globale sembra esserne affetto in tutte le sue forme. Se i più coraggiosi decidono di affrontare il problema “spartanamente” e rifiutarsi di assumere degli analgesici quando serve, non sarà improbabile che costoro possano ritrovarsi a convivere col dolore in modo continuo, sviluppando una abitudine che non è salutare nè per loro, nè per la loro igiene mentale e nè per chi gli sta accanto. Nessuno ha mai fatto caso, guardando la TV, che spesso o a periodi ciclici una fetta della pubblicità è proprio dedicata alla sponsorizzazione di farmaci contro il mal di testa? Si tratta di semplice risvolto commerciale o forse dietro c’è la consapevolezza di quanto sia grande il problema?
Non si prenderanno posizioni di sorta in questo contesto: tuttavia, se è vero che la vendita è proporzionale alla domanda (come vogliono le leggi di mercato), si vede che c’è effettivamente una grossa fetta di popolazione che accede agli analgesici per riuscire a convivere col problema. Il punto è che la cefalea muscolo-tensiva è originata dallo stress quotidiano e non esiste un farmaco che possa risolvere i problemi di ogni giorno: diventa più facile, a questo punto assumere una pillola o una bustina che permetta di andare avanti togliendo il dolore. Qui si potrebbe ribattere dicendo che la gestione dello stress al lavoro, con la famiglia, con gli amici potrebbe avere la priorità ma si perderebbe solamente tempo poichè le variabili ed i parametri in gioco sono talmente tanti da rischiare di non trovare più l’inizio e la fine del bandolo della matassa. Ma è anche vero che abusare di FANS causa grossi problemi.
Nel tempo compaiono gastrite, colite, problemi di coagulazione del sangue e della funzionalità renale. Sembra che alcuni di essi possano aumentare il rischio per ictus, infarto cardiaco e scompenso cardiaco acuto. Questa redazione scientifica si è imbattuta (nella sua esperienza clinica) in due persone che hanno dovuto subire un trattamento dialitico, per un certo periodo di tempo, dopo l’uso protratto di un conosciutissimo analgesico a base di ketoprofene usato per il mal di testa. La nefropatia da FANS, fra parentesi è diffusa a livello globale ed i clinici sospettano che almeno il 20% di tutti i casi di insufficienza renale cronica (IRC) dipendano dalla quantità di antidolorifici assunti da queste persone nel corso della loro vita. C’è chi pensarebbe che usare il paracetamolo (Tachipirina) possa essere un alternativa per non danneggiare lo stomaco ed evitare la comparsa di gastrite erosiva. Il problema è che non tutti rispondono alla somministrazione di paracetamolo.
Come ciliegina sulla torta, poi, il paracetamolo può non danneggiare lo stomaco ma nel tempo appesantisce le funzioni di fegato (dove viene metabolizzato) e reni (dove si esplica l”effetto tossico nel tempo). Tra i farmaci nella lista della nefropatia da FANS, infatti, c’è anche il paracetamolo. Dato che, come detto prima, la cefalea riconosce nella stragrande maggioranza dei casi un radice psicologica legata ai fenomeni di stress, l’ideale è che ci fosse la diffusione di una cultura della gestione emotiva alle situazioni stressanti che, purtroppo, non sono eliminabili dalla nostra quotidianità. E cosa dire dell’insonnia? Anche qui siamo di fronte ad una piaga sanitaria che ha nello stress il suo colpevole maggiore: preoccupazioni, ansie, insicurezze per il futuro o per il lavoro o per i risvolti sentimentali della propria vita; all’elenco l’unico limite è la fantasia. Il rimedio più conosciuto? Qualche pillola o gocce a base di benzodiazepine, i sonniferi che inducono la dipendenza per eccellenza.
Infatti, mentre per i FANS il pericolo sembra non sussitere, per le benzodiazepine si sviluppa una dipendenza psico-fisica che secondo le evidenze scientifiche attuali è per definizione un disturbo cronico recidivante (che implica cioè delle ricadute), caratterizzato dall’utilizzo compulsivo di sostanze e dall’incapacità di smettere. I tre stadi della dipendenza sono: a) preoccupazione volta a come procurarsi la sostanza, b) intossicazione e conseguenti effetti negativi e c) astinenza. Questa redazione scientifica, per una delle tipologie di lavoro che svolge (medico di guardia in casa di cura privata), è testimone diretta di questo fenomeno. Ci sono pazienti che, per potere avere una discreta qualità di sonno nell’ambiente saniario della loro degenza, chiedono puntualmente ogni sera un presidio sonnifero a base di qualche benzodiazepina (sonnifero vero o ansiolitico). E ci sono sia quelli che giungono da casa già dipendenti e quelli che lo diventano durante la degenza riabilitativa.
Si è stati altresì testimoni del fatto che la somministrazione di placebo al posto del farmaco reale ha sortito lo stesso effetto, indicando che molti di costoro non necessitano realmente di assumere un sonnifero e che la dipendenza dal farmaco è di tipo psicologica. Quando non è stato prescritto alcun sonnifero a scopo precauzionale, è stato riportata la comparsa di agitazione, irrequietezza e sintomi fisici che poco avevano a che fare con l’anamnesi clinica degli interessati. I tre stadi suddetti della dipendenza si alimentano a vicenda in una pericolosa spirale e, con l’aggravarsi della dipendenza, possono diventare sempre più intensi. Col passare del tempo, infatti, s’instaurano dei cambiamenti nella struttura e nel funzionamento dei neuroni che modificano le capacità decisionali della persona; l’alterazione della chimica cerebrale spiega quindi il circolo vizioso della dipendenza. Con l’aumentare dell’età il problema può aumentare per il fattore co-morbilità.
Più del 50% degli ultrasettantenni, oggi, ha almeno due condizioni mediche in stabile trattamento farmacologico. L’ipertensione e colesterolo alto sono fra le costanti: poi ci sono diabete di tipo 2, depressione, disturbi d’ansia, problemi renali ed altro ancora, tutte condizioni che presuppongono l’assunzione di almeno 3-4 farmaci diversi ogni giorno. Negli anziani, pertroppo, non si può parlare di reale abuso di farmaci o di dipendenza psico-fisica: le loro condizioni mediche sono reali e se non trattate in modo opportuno possono condurre a complicanze anche fatali, come nel caso del diabete o delle malattia cardiache. E’ anche vero, però, che l’eccessivo controllo della pressione arteriosa negli anziani può condurre alla comparsa di pressione bassa (ipotensione) e insufficiente perfusione sanguigna al cervello. Questo può concorrere alla confusione, allo stato di affaticamento, alle alterazioni dell’umore, nonchè alle rovinose cadute che provocano le fratture femorali.
Fra parentesi, anche gli anziani sono fra coloro che per problemi di insonnia o depressione o altri disturbi dell’umore sono a rischio di abuso di psicofarmaci. Per loro è poco comune che si sviluppi una vera dipendenza psico-fisica; ma si registrano anche coloro che seguono meticolosamente od ossessivamente le scadenze delle loro assunzioni di terapia giornaliera, preoccupandosi di “sgarrrare il minuto”. E’ più grave, invece, che gli effetti farmacologici si ripercuotano sul loro benessere psicologico, prendisponendoli a effetti collaterali che inficino sulle loro relazioni sociali ed interpersonali, aumentando anche il rischio di declino cognitivo in coloro che hanno predisposizione a sviluppare una demenza senile.
- a cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.