mercoledì, Febbraio 5, 2025

Neuroinfiammazione: l’attore sul palco che lega il post-COVID col problema della demenza senile

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Gli scienziati del DZNE, dell’ospedale universitario di Bonn e dell’Università di Bonn forniscono nuove prove del fatto che prevenire l’infiammazione cerebrale è un approccio promettente per il trattamento del morbo di Alzheimer. Le loro scoperte, basate su studi su colture cellulari, topi e campioni di tessuto di pazienti, possono contribuire allo sviluppo di terapie più efficaci. Sono pubblicate sulla rivista scientifica Immunity. La dott. ssa Róisín McManus, responsabile del gruppo di ricerca del DZNE, ha spiegato che il morbo di Alzheimer comporta una complessa interazione di diversi meccanismi. Uno di questi è la neuroinfiammazione. In particolare, hanno manipolato farmacologicamente un complesso molecolare chiamato inflammasoma NLRP3. Esso è come un interruttore di controllo: nell’Alzheimer, la sua attivazione innesca una risposta infiammatoria che danneggia i neuroni.

Per questo motivo, i ricercatori hanno esplorato modi per inattivare questo complesso molecolare utilizzando farmaci. I risultati attuali supportano questo approccio. È noto che l’inibizione di NLRP3 non solo riduce la neuroinfiammazione, ma aiuta anche la microglia a liberarsi dai depositi dannosi di beta-amiloide, attraverso un processo chiamato fagocitosi. La novità delle attuali scoperte è che forniscono una migliore comprensione dell’importante ruolo che NLRP3 svolge nella microglia e svelano anche il meccanismo alla base del motivo per cui la sua inibizione è così benefica. Usare molecole inibitorie dell’inflammasoma potrebbe diventare la prossima strategia molecolare per prevenire la demenza senile in modo più ampio e anche pratico. Gli scienziati sanno da un po’ di tempo che alcune molecole antinfiammatorie naturali contenute negli alimenti comuni sono capaci di interferire con l’attivazione dell’inflammasoma NLRP3.

Quindi un approccio integrato che comprenda la nutrizione a tavola potrebbe finalmente diventare realtà. Ma perché stressare questo concetto della neuroinfiammazione? Perché purtroppo la passata pandemia di COVID ha lasciato il suo segno in tutto, anche nelle informazioni: una componente centrale dei disturbi che il COVID-lungo (o post-Covid) dà a livello cerebrale (problemi di concentrazione o della memoria, confusione, alterazioni comportamentali, insonnia), sono frutto proprio della neuroinfiammazione indotta dalla carica virale. Mentre il mondo continua a riprendersi dalla pandemia di COVID-19, gli scienziati stanno studiando i suoi effetti a lungo termine sulla salute del cervello. Per esplorare il potenziale collegamento tra COVID-19 e patologia correlata al morbo di Alzheimer, un team di ricerca ha analizzato campioni di plasma sanguigno dei partecipanti allo studio di ripetizione dell’imaging COVID-19 della UK Biobank.

Lo studio ha incluso 626 individui risultati positivi al test SARS-CoV-2 e 626 controlli abbinati che non erano stati infettati, che erano stati selezionati in base a cartelle cliniche, risultati dei test antigenici e test sugli anticorpi. Lo studio ha scoperto che gli individui affetti da COVID-19 hanno mostrato cambiamenti significativi nei biomarcatori cerebrali associati alla malattia di Alzheimer. Il rapporto Aβ42:Aβ40, un marcatore chiave dell’accumulo di beta-amiloide, era più basso nei partecipanti positivi al COVID-19 rispetto ai loro controlli abbinati. Un rapporto ridotto di queste proteine ​​è comunemente collegato alla patologia dell’Alzheimer. Inoltre, lo studio ha osservato livelli aumentati di pTau-181, una proteina associata ai grovigli di tau nel cervello, e livelli elevati di NfL, che indicavano danni neuronali. Anche la proteina GFAP, un marcatore dell’attivazione degli astrociti e della neuroinfiammazione, era più alto in coloro che avevano il COVID-19.

Sorprendentemente, questi cambiamenti nei biomarkers erano paragonabili a quattro anni di invecchiamento o al 60% della dimensione dell’effetto dell’ereditarietà di un singolo allele APOE-ε4, un noto fattore di rischio genetico per la malattia. Questi cambiamenti nei biomarcatori erano più pronunciati negli individui più anziani (in particolare quelli con più di 70 anni) e in quelli con fattori di rischio preesistenti come ipertensione e obesità. Inoltre, lo studio ha scoperto che alcuni marcatori infiammatori, tra cui IL-6, TRAIL e PTX3 erano alterati negli individui post-COVID, suggerendo una risposta infiammatoria prolungata che potrebbe contribuire alla patologia cerebrale. I ricercatori hanno spiegato che, sebbene questo studio non stabilisca un nesso causale diretto tra COVID-19 e Alzheimer, i risultati sollevano preoccupazioni sulle potenziali conseguenze neurologiche a lungo termine dell’infezione virale.

I risultati hanno anche evidenziato l’importanza di monitorare la salute del cervello nei pazienti post-COVID-19 e di considerare strategie preventive per i pazienti a rischio. Il punto è che fra casi clinici accertati, casi molto lievi (o addirittura dubbi o non confermati) e quelli asintomatici per i quali non esistono dati clinici o conferme sicure, il numero di centinaia di milioni diventa difficile da gestire in qualunque nazione si trovi. Si dovrebbe prima quantomeno elaborare uno screening pratico per monitorare almeno quelli che hanno avuto l’infezione clinicamente confermata e/o un COVID-lungo accertato. Un impegno sanitario attuale che congiunge la ricerca di base con la medicina preventiva, quella personalizzata e il riguardo per lo stile di vita a tavola.

  • A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.

Pubblicazioni scientifiche

McManus RM et al. J Immunol 2025 Feb 3; in press.

Duff EP et al. Nature Med. 2025 Jan 30; in press.

Levine KS, Leonard HL et al. Neuron 2023; 11:1086.

Lučiūnaitė A et al. J. Neurochem. 2020; 155:e14945.

Dott. Gianfrancesco Cormaci
Dott. Gianfrancesco Cormaci
Laurea in Medicina e Chirurgia nel 1998; specialista in Biochimica Clinica dal 2002; dottorato in Neurobiologia nel 2006; Ex-ricercatore, ha trascorso 5 anni negli USA (2004-2008) alle dipendenze dell' NIH/NIDA e poi della Johns Hopkins University. Guardia medica presso la casa di Cura Sant'Agata a Catania. Medico penitenziario presso CC.SR. Cavadonna (SR) Si occupa di Medicina Preventiva personalizzata e intolleranze alimentari. Detentore di un brevetto per la fabbricazione di sfarinati gluten-free a partire da regolare farina di grano. Responsabile della sezione R&D della CoFood s.r.l. per la ricerca e sviluppo di nuovi prodotti alimentari, inclusi quelli a fini medici speciali.

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