Generalità e dati clinici
Tutti conoscono la talassemia, anche se è meglio conosciuta come anemia mediterranea. Le talassemie sono un gruppo emopatie su base genetica con insufficiente produzione di emoglobina, per la precisione un’alterazione quantitativa della sintesi delle catene emoglobiniche. Nella forma alfa si ha minore produzione di catene α, nel tipo beta ovviamente si ha minore produzione di catene β. La forma beta è sicuramente quella più diffusa; nella sua forma major era originariamente nota come morbo di Cooley. Questo è caratterizzato dalla sbilanciata sintesi di catene β, seguita sia da emolisi di grado variabile che incorretta formazione di globuli rossi maturi (eritropoiesi inefficace). Infatti, l’eccesso di catene α, poco solubili, tende e a formare aggregati dentro i precursori midollari che destabilizzano la loro maturazione. Per compensare queste perdite, il midollo si espande a colonizzare organi che normalmente non producono sangue nell’età adulta, cioè fegato e milza. Questo spiega perché il 20% dei pazienti con anemia mediterranea ha la milza ingrossata (splenomegalia).
In aggiunta, la carenza di catene beta porta all’espressione parziale di catene gamma (presenti solo in età fetale), generando complessi α2γ2, noti anche come emoglobina fetale (HbF). Maggiore è la loro produzione, migliore è il quadro clinico. L’esame emocromo completo rileva numerose anomalie. Le proteine maggiori del siero (albumina, fibrinogeno, alfa-2-microglobulina, ferritina) sono alterate a causa del cronico accumulo di ferro nel fegato. L’emoglobinoforesi evidenzia l’emoglobina A2 raddoppiata ed un aumento medio del 25% di HbF. I bambini con la forma major appaiono malnutriti, sottopeso e possono sviluppare anomalie scheletriche, dovute all’espansione del midollo osseo. L’anemia può paradossalmente associarsi ad eccessiva presenza di ferro, poiché questo non viene utilizzato dal midollo osseo dopo la distruzione globuli rossi. L’anemia risultante, perciò, viene corretta con trasfusioni di emazie concentrate, che accentua il carico organico di ferro.
Questo, a sua volta, si accumula nel fegato ed in altri organi (reni, polmoni, organi endocrini) portando ad accumuli pericolosi per il funzionamento dei tessuti interessati (siderosi). La maggior parte degli altri pazienti con sovraccarico di ferro è anemica (Hb <10 g/100ml) e, pertanto, in particolare quelli che dipendono dalla trasfusione, richiederà una terapia chelante per normalizzare il livello di ferro (saturazione della transferrina <50% e ferritina sierica <500ng/mL). L’anemia mediterranea può comportare anche ridotta fertilità, in alcuni casi fino alla sterilità. Nelle donne affette da anemia mediterranea l’infertilità è causata dell’eccessiva presenza di ferro nelle ovaie e negli organi o ghiandole che contribuiscono al loro sviluppo (es. ipofisi). In alcune donne con talassemia il ciclo mestruale non inizia mai (amenorrea primaria) o dopo alcuni anni può cessare del tutto (amenorrea secondaria). Ma nella media tutte le donne con anemia mediterranea hanno un tasso di fertilità molto basso.
L’accumulo di ferro: cosa provoca e come si cura
La causa di tutti i problemi nel decorso della malattia è lo stress ossidativo causato dall’accumulo di ferro, come detto sopra. L’alternanza dello ione ferro tra forma ridotta (+2) e ossidata (+3) trasferisce elettroni sulle molecole di ossigeno generando superossido (O2-), che trasformato in acqua ossigenata. Questa, reagendo nuovamente con ferro ridotto produce radicali idrossile (*OH). Quest’ultimo passaggio si chiama reazione di Fenton e non esistono sistemi endogeni di protezione contro questo radicale. La sua grande reattività gli permette di danneggiare le membrane cellulari, le proteine fino agli acidi nucleici. A primo impatto, si potrebbe pensare che una alimentazione ricca di vitamina C possa essere utile ad evitare il danno, considerato che essa promuove anche un migliore assorbimento intestinale del ferro. Niente di più sbagliato.
La reazione fra vitamina C (acido ascorbico) con ioni ferro (+2) è una sorgente proprio di radicali idrossile, che aggraverebbero il danno biologico. Ecco perché il cardine della moderna cura per la talassemia è la terapia chelante. Originariamente veniva usata la desferoxamina (Desferal), che ad infusione cutanea a cicli ritardava notevolmente la comparsa degli effetti tossici della siderosi. Oggi sono a disposizione agenti più efficaci e più sicuri, come il deferiprone (Ferriprox) e il deferasirox (Exjade), che possono essere assunti per bocca. L’efficacia della chelazione può essere migliorata mediante l’uso di una combinazione di chelanti. Pertanto deferoxamina, il deferiprone può trasferire il ferro dai tessuti in circolo, dove la si lega e facilita la sua escrezione nelle urine (meccanismo navetta).
Approcci innovativi
Il fenomeno della regolazione delle catene gamma, per aumentarne la produzione, è un punto attivo della ricerca ematologica che ha identificato alcune sostanze naturali interessanti allo scopo. Nuovi agenti includono quelli che influenzano la cromatina (come la decitabina sulla metilazione del DNA) e altri che influenzano certi fattori di trascrizione del DNA. Uno di questi è il resveratrolo, contenuto nel vino rosso e che abolisce un fattore chiamato FOXO3, che sopprime la maturazione dei globuli rossi. La biologia molecolare ha permesso di identificare geni che interferiscono con l’espressione dell’emoglobina, come KLF1, Bcl-11, LRF, LSD-1 ed LBD-1.
I ricercatori sperano che la loro manipolazione farmacologica o genetica possa aprire la porta ad una nuova tipologia di terapia. La terapia genica coinvolge la manipolazione genetica in vivo delle cellule staminali autologhe, che vengono poi trapiantate nel paziente per la ricostituzione. Studi di terapia genica hanno utilizzato principalmente vettori Lentivirus in sistemi sperimentali, comprese le cellule staminali in coltura da pazienti beta-talassemici e modelli di topo beta-thal. I pazienti βE/β0 trasfusionali sono stati trapiantati con cellule progenitrici autologhe trasdotte ex vivo con vettori lentivirali β-globinici. Ad oggi, sono noti solo sette pazienti che sono stati trattati con risultati incoraggianti, in termini di attecchimento e indipendenza dalle trasfusioni.
Come comportarsi nell’alimentazione?
E’ possibile, dunque, attuare una nutrizione e scegliere il giusto antiossidante per garantire una migliore qualità di vita ai pazienti? Le indagini cliniche decennali sulla malattia, hanno evidenziato carenze multiple a carico dei pazienti che arrivano all’età matura e poi adulta. Da questo deriva la raccomandazione per supplementi con acido folico, carnitina, acido lipoico, vitamina H, fosforo, calcio e rame. Tra i deficit nutrizionali riscontrati nella talassemia major, vi sono anche quelli di vitamina A, vitamina E, zinco e selenio. Questi ultimi sono noti antiossidanti facenti parte di sistemi enzimatici contro l’azione dei radicali liberi. Per la donna in particolare, questi fattori vitaminici e minerali sono anche degli attivi regolatori e protettori della sua fertilità.
Qualora se ne riscontrasse carenza, le migliori sorgenti simultanee di vitamina A, calcio, fosforo e zinco, sono il latte intero ed i legumi. Carnitina ed acido lipoico, invece, derivano primariamente dalle carni animali. Ove l’alimentazione risultasse inadeguata in tal senso, la integrazione esterna è disponibile in commercio ed accessibile in formulazioni per bambini ed adulti. La loro integrazione non deve essere ritenuta marginale, considerato che le complicanze cardiache dei pazienti adulti con anemia mediterranea sono relativamente frequenti. Supplementi contenenti acido lipoico, vitamina E, carnitina e selenio, aiutano il cuore a fronteggiare meglio lo stress ossidativo causato dall’accumulo cronico di ferro.
La vitamina C non deve essere considerata un fattore tossico o aggravante per l’anemia mediterranea. La sua efficacia è solamente subordinata al grado di accumulo di ferro del paziente. Ciò può significare che adeguati quantitativi di vitamina C possono essere introdotti dopo aver completato un ciclo di terapia chelante del ferro, per minimizzare il danno biologico. Anche in questo senso, la scelta della frutta può divenire mirata: al riguardo si segnalano la papaya, il kiwi, le fragole e gli altri frutti di bosco. Considerata l’inguaribilità clinica e l’assenza attuale di approcci risolutivi mirati alla radice, lo sforzo personale del paziente dovrebbe concentrarsi sulla prevenzione del danno biologico con una nutrizione razionale e mirata.
- a cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.
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