Il caffè è tra le bevande più gradite al mondo, secondo solo al thè. Il suo consumo è legato a fattori misti, di tipo socio-culturale, organolettico finanche a quello di dipendenza. Le sue proprietà principali sono legate al contenuto dell’alcaloide caffeina, che esercita i noti effetti stimolanti sul sistema nervoso, quello circolatorio e, in minor misura, respiratorio e renale. A parte individui che consumano caffè molto di rado o per nulla, altri soggetti sono fortemente dipendenti da questa bevanda, spesso per ragioni ove di gradimento, ove lavorative, ove entrambe. Tuttavia, la caffeina, dopo aver esercitato i suoi effetti farmacologici, va incontro a catabolismo. Appartenendo alla classe delle purine (metil-xantina), essa viene trasformata essenzialmente in acido urico. Questo ha suscitato l’interesse medico per scoprire se esistesse una correlazione diretta fra consumo quantitativo di caffè e patologie renali. Purtroppo, i dati pubblicati in letteratura spesso rivelano opinioni conflittuali riguardo al suo effetto favorente la formazione di calcoli, di interferenza con la funzionalità renale, l’escrezione di liquidi o la perdita di elettroliti. Molte delle incongruenze negli studi possono sicuramente dipendere dai dosaggi impiegati, da esposizioni precedenti, da problemi metabolici (es. diabete ignorato) più o meno conosciuti a priori ed anche concomitante uso di farmaci a scopo personale. Non ultimo, il terreno genetico è di pari importanza, dato che la caffeina può sia modificare catene enzimatiche metaboliche, sia venire modificata da enzimi per il metabolismo epatico dei farmaci.
Dato il suo ovvio metabolismo, è stata considerata la possibilità di insorgenza di nefrolitiasi (calcolosi). Esistono svariate decine di pubblicazioni al riguardo, con risultati negativi, ora positivi ora statisticamente non-significativi. La più ingente è stata pubblicata a fine 2014 ed ha coinvolto 3 grandi coorti di soggetti: lo Health Professional Follow-Up Study (HPFS) ed i due Nurse Health Study, per un totale di 217.883 partecipanti. Per tutte le coorti, vi è stata tendenza alla minore insorgenza di calcolosi (p<0.001). La caffeina aumenta l’escrezione di calcio, ma tende a ridurre quella di acido ossalico; infatti, la maggiore associazione con calcolosi è comparsa fra i sottogruppi che avevano assunto caffè decaffeinato. Per cui lo studio ha concluso che l’introito di caffeina è associata ad una minore incidenza di nefrolitiasi nell’uomo. In seguito, sono stati effettuati studi sui rischio di assumere caffeina in pazienti affetti da insufficienza renale cronica (IRC) o sul consumo di caffè in pazienti in emodialisi. Secondo le più recenti visioni della letteratura scientifica, il consumo fino a 3 tazzine di caffè al giorno non sembra rappresentare un rischio per i pazienti nefropatici cronici. Particolare riguardo, invece, gli studiosi lo volgono agli anziani, in particolare se in concomitante trattamento con antidolorifici e/o diuretici. Per i soggetti con familiarità di calcolosi o precedente storia clinica di nefrolitiasi, viene solamente raccomandato un adeguato apporto idrico. Uno studio finale (meta-analisi) di quest’anno che ha coinvolto quasi 15.000 individui, ha concluso che non sembra esserci alcuna associazione fra consumo di caffè e rischio di sviluppare IRC nei soggetti maschili. Mancano dati per il sesso femminile.
Infine, l’attenzione dei ricercatori è stata rivolta alla relazione fra il consumo di caffè e rischio di sviluppare tumori renali. L’associazione fra carcinoma renale e introito di caffeina è stata da sempre controversa. A parte la caffeina, infatti, il caffè contiene alcuni composti antiossidanti e chemiopreventivi (cafestolo, acido caffeico, acidi clorogenici, ecc.), che si è proposto poter ridurre l’incidenza di tumore renale, grazie proprio alla loro capacità di elicitare la comparsa di risposte cellulari difensive. Con sorpresa, sembra che sia la presenza di caffeina a condizionare direttamente la comparsa o meno di tumore renale. Sono appena stati pubblicati due studi, volti entrambi a determinare se il consumo di caffè sia direttamente correlato alla comparsa del carcinoma renale a cellule chiare (RCC). Lo studio meta-analisi che ha considerato l’utilizzo di caffè regolare, ha analizzato le banche dati MEDLINE, EMBASE e COCHRANE, ed ha visto una minore incidenza di tumore renale fra i bevitori di caffè regolare. L’altro studio, invece, ha confrontato le anamnesi di 669 casi di RCC con quelle di un migliaio di soggetti sani. Rispetto al consumo di caffè, è stata riscontrata un’associazione inversa tra il consumo di caffeina e il rischio RCC, ed una tendenza verso un aumento del rischio di RCC per il consumo di caffè decaffeinato. Il consumo di caffè deca è stato associato anche con un aumento del rischio per un sottotipo RCC, in particolare la forma aggressiva ccRCC.
Il fatto che la caffeina sia potenzialmente responsabile di questo effetto biologico, desta interesse su come questa sostanza possa avere delle azioni biologiche che forse ancora non sono state esplorate o scoperte. La caffeina, infatti, non possiede azioni antiossidanti dirette o indirette note. E’ dimostrato che i diterpeni antiossidanti del caffè (cafestolo, kaweholo) possono attivare risposte cellulari (Nrf-2, AhR) che stimolano la sintesi di proteine ed enzimi antiossidanti. Una simile azione finora non è stata riscontrata a carico della caffeina. Esiste una sola pubblicazione sperimentale sugli effetti anti-fibrotici della caffeina su topi cirrotici, in cui la caffeina ha ritardato al progessione della malattia attraverso qualcuna delle risposte cellulari menzionate (Nrf-2). In conclusione, sembra che l’assunzione moderata di caffè possa risultare non nociva per l’apparato renale. Anzi, pare che ci sia un certo effetto protettivo della caffeina nei confronti delle maggiori nefropatie.
Questo, si rimarca, entro le quantità della norma. Come per ogni cosa, d’altronde….
- a cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.
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